Di Aigul Safiullina
Dopo circa cinque ore di viaggio da Bariloche il nostro autobus si ferma all’improvviso nel mezzo del nulla. “Leleque, La Comunità”, annuncia l’autista. “Siamo arrivati muchacha”. Fuori, i prati si estendono fino alle montagne e gli occhi a fatica riescono a fissare l’orizzonte. Non c’è nulla di simile ad una città o ad un paese, solo una piccola porta di legno improvvisata e un’insegna su un’enorme staccionata che recita: “Comunidad de Santa Rosa. Territorio Mapuche Recuperado”.
Siamo arrivati qui, in un luogo dimenticato, perduto nel cuore della Patagonia, l’epicentro di un conflitto oggi famoso a livello mondiale: Santa Rosa di Leleque, dove i membri della comunità indigena Mapuche sono impegnati in una grande lotta per riappropriarsi di terre che, come affermano gli stessi Mapuche, spettano loro di diritto, scontrandosi così con uno dei marchi dell’abbigliamento più famosi al mondo.
Il caso Benetton
Quando arriviamo, Santa Rosa di Leleque brulica di gente, come sempre accade da sei anni a questa parte. Non solo è la settimana del Kamaruko, la principale festa religiosa del popolo Mapuche, ma è anche l’anniversario della riappropriazione (recuperación è il termine che amano usare le comunità locali) di questo lembo di terra da parte della famiglia Curinanco – Rùa Nahuelquir e di altri 30 membri della comunità, avvenuta il 14 Febbraio 2007
“Sono molti anni che cercano di scacciarci dalla nostra terra, con l’uso della forza fisica e vantando i diritti di coloro che invasero i nostri territori,” Rosa Rùa Nahuelquir posa gli utensili da cucina, e parla. “Però sappiamo che siamo più forti, perché la verità è dalla nostra parte e ci alzeremo per difenderla, non importa quanto ci costerà.”
Atilio Curiñanco e Rosa Rúa Nahuelquir entrarono nel territorio che ora si chiama Santa Rosa di Leleque, nell’agosto del 2002. Progettavano di tornare alle loro terre ancestrali e iniziare una nuova vita dopo tanti anni di lavoro nelle fabbriche di Texcom e di Frigorifico nel vicino paese di Esquel. E così iniziò una lunga battaglia legale con il gruppo Benetton, per un territorio di più di 535 ettari nella provincia del Chubut, Argentina.
La famiglia Curiñanco – Rúa Nahuelquir reclama questo territorio, affermando che parte di esso apparteneva ai loro avi prima della colonizzazione della Patagonia avvenuta nel 1800. Il gruppo Benetton, invece, pone l’accento sul certificato di proprietà della terra, emesso nel 1991, quando il gruppo acquistò più di 900.000 ettari dalla società britannica The Argentine sur Land Company Limited (CTSA).
Ricorda Atilio Curiñanco: “Abbiamo presentato una dichiarazione scritta al commissariato di Esquel, dopo esserci consultati con l’Istituto autarchico di Colonizzazione e Sviluppo rurale (IAC), che ha confermato verbalmente che lo spazio era pubblico e abbandonato da molti anni”. Secondo Atilio, molti altri contadini dei territori vicini si recavano in queste terre per raccogliere la legna. Terre assai polverose e battute da un forte vento, che richiedevano molto lavoro per poter essere coltivate. Tuttavia, solo pochi giorni dopo l’ingresso della famiglia nel suddetto territorio, la polizia ha aperto un indagine sul reato di usurpazione della terra e ed ha presentato una dichiarazione legale emessa dalla CTSA.
Nell’ottobre dello stesso anno, la famiglia Curiñanco – Rúa Nahuelquir venne sgomberata da Leleque con l’uso della forza, tutto i loro beni sequestrati o distrutti. Nel 2004, la famiglia si recò in Italia per incontrare Luciano Benetton, il quale offrì circa 2500 ettari di terra a tutte le comunità indigene della provincia, come donazione. “Ovviamente, rifiutammo l’offerta, in quanto Benetton non era nella posizione di donare qualcosa che non possedeva”, dice Rosa Nahuelquir, indignata.
Successivamente Benetton si propose di donare la stessa quantità di terra al governo argentino che avrebbe potuto così suddividerla tra le varie comunità indigene locali. Nel 2005, il governo della provincia del Chubut rifiutò l’offerta, annunciando che i 2.500 ettari erano improduttivi e dicendo che non aveva intenzione di entrare in conflitto con gli abitanti del territorio.
A febbraio del 2007, la coppia rientrò a Leleque con altri 30 membri della comunità, iniziando a costruire una casa. La CTSA li accusò immediatamente di danneggiare il territorio, benché il tribunale penale abbia poi considerato illegittimo il reclamo presentato dall’azienda. Nei cinque anni successivi la famiglia ha dovuto far fronte a molte altre denunce penali da parte della CTSA, con accuse di distruzione della proprietà e ordini di sgombero, l’ultimo a febbraio di quest’anno. La famiglia ha sempre respinto le accuse, forte del proprio bisogno di coltivare la terra, allevare animali domestici e creare le condizioni di vita basilari per la sopravvivenza. “Come potrei lasciare che la mia famiglia muoia di fame per colpa della decisione di una persona crudele?” si chiede retoricamente Curiñanco.
Il caso “Mapuche vs Benetton” ha attirato l’attenzione delle organizzazioni mondiali e locali che si occupano di diritti umani, dei mezzi di comunicazione, dei partiti politici, e ha contributo a creare uno scomodo spazio di riflessione riguardo varie problematiche – dai conflitti per le terre al razzismo e all’uguaglianza.
Lo Stato argentino ha inserito nella propria costituzione i diritti delle popolazioni indigene solo nel 1994, con il riconoscimento de “la facoltà giuridica di queste comunità di possedere le terre che occupavano tradizionalmente”. Ciò nonostante, coloro che hanno cercato di esercitare questo diritto si ritrovano ad affrontare lunghe battaglie legali contro potenti nemici. Benetton è solo un altro nome di una lunga lista di imprenditori e personalità celebri che hanno partecipato al conflitto della terra contro il popolo Mapuche – tra cui Levi Strauss & Co, Gruppo Loma Negra, Jane Fonda, Ted Turner, Emanuel Ginóbili, Marcelo Tinelli, López Rey e molti altri.
Gli autori del rapporto annuale del 2013 pubblicato dall’Osservatorio dei Diritti Umani dei Popolo Indigeni (ODHPI), affermano che 347 persone Mapuche sono attualmente coinvolte in cause giudiziarie legate ai conflitti per la terra, nella sola provincia del Neuquén. “Loro [il governo] ci fanno sentire stranieri in questo paese, però, nello stesso tempo consegnano la terra agli stranieri!”, afferma Ruben Curricoy, attivista Mapuche di Bariloche. Il rapporto dell’ODHPI, che quest’anno si concentra sulle provincie di Neuquén, Rio Negro e Chubut, aggiunge: “L’espropriazione delle terre continua ad essere il principale ostacolo alla sopravvivenza e allo sviluppo dei popoli indigeni come popolazione autonoma in Patagonia”.
Per comprendere interamente la forza e la complessità dell’attuale lotta per la terra in Patagonia, è importante ricordare la storia dell’Argentina e il trattamento riservato ai popoli indigeni. Occorre andare oltre l’immagine presente sulla banconota da 100 pesos che rappresenta lo sciagurato presidente Julio Argentino Roca, impegnato nella “campagna del deserto” degli anni 1878-85, grazie alla quale l’Argentina sarebbe diventata una potenza agricola, attraverso il genocidio dei popoli indigeni che furono espulsi della proprie terre ed assassinati. Le famiglie che si impegnarono nella suddetta campagna furono generosamente ricompensate, come ricorda un discendente di una di queste famiglie, che preferisce non essere identificato: “offrivano agli aventi diritto di prendersi tutta la terra che il loro sguardo riusciva ad abbracciare. E credetemi, alcune persone avevano una vista ottima”.
Curricoy si affretta a fornire altri esempi storici. “Il governo parla di 30.000 persone scomparse durante la dittatura. Non è esattamente così. In quella cifra sono compresi solo gli “huincas” (uomo bianco in lingua Mapuche), mentre nel nostro popolo il numero dei morti era molto più alto. Ammiro la lotta delle madri di Plaza de Mayo, ciò nonostante, non riesco ad immaginare una madre indigena che viene ascoltata dalla società. Solo perché non è bianca quanto l’uomo bianco”.
Nonostante i recenti progressi, molti esponenti delle comunità Mapuche affermano di essere stati male interpretati. Curricoy ricorda una visita alla Casa Rosada durante le celebrazioni del Bicentenario del paese nel 2010, quando la presidentessa Cristina Fernàndez da Kirchner fece una battuta sull’uso delle moderne tecnologie, dopo aver udito il trillo di un telefono cellulare. “Questo episodio mi fornì una chiave di lettura lampante, confermando che i popoli indigeni continuavano ad essere esclusi da questo paese”, dice Curricoy.
Un altro esempio recente: quando tre comunità Mapuche del Neuquén furono attaccate da dieci persone non identificate, i mezzi di comunicazione a mala pena raccontarono l’accaduto.
Il rapporto dell’ODHPI conclude: “gli organi di governo che si suppone debbano rispondere alle richieste di rispetto dei diritti dei popoli indigeni non portano a termine il proprio lavoro”, e in qualche caso fanno il contrario di quanto è previsto dalla legge. La relazione sottolinea che il governo appoggia le imprese private, effettuando operazioni speculative attraverso i settori dello sfruttamento delle risorse naturali, del turismo e dell’edilizia, a spese dei popoli originari. Come se non bastasse, le recenti riforme del Codice Civile, proposte del governo, provocheranno un maggior numero di sgomberi e di processi per usurpazione della terra”, secondo quanto afferma il rapporto dell’ODHPI.
Comunità contro la proprietà privata
Con le provincie che manifestano un disperato bisogno di investimenti stranieri, è difficile immaginare che i governi locali appoggeranno chi non ha intenzione di sfruttare le terra per interessi commerciali, come la comunità Mapuche, la cui filosofia si basa sulla protezione della Mapu, la terra.
La condivisione è uno dei valori fondamentali per i Mapuche – nella lingua Mapusungun non ci sono parole come “no” o “proprietà” – e questo complica ancor di più i conflitti per la terra portati avanti dalla comunità Mapuche. “Non abbiamo atti di proprietà, dato che non ne esistono per quello di cui abbiamo bisogno”, spiega Ruben Curricoy. “Ci hanno offerto lotti individuali, ciò implica maggiori tasse e molte restrizioni. D’altro canto, la proprietà individuale va contro la nostra filosofia di vita comunitaria”.
Secondo i Mapuche, un “certificato di proprietà comunitaria” dovrebbe comprendere tutti i membri della comunità ed non permettere la vendita della terra. Tutti i titolari di questo tipo di proprietà godono degli stessi diritti e delle stesse possibilità di utilizzo della terra. Considerato che nei Mapuche la leadership è considerata in senso orizzontale, nessuno ha privilegi speciali nel processo decisionale e nella distribuzioni dei beni.
“Ciò nonostante, è triste vedere che tanti villaggi non possono espandersi territorialmente, di pari passo con l’incremento demografico della popolazione. In questo modo le nostre generazioni future, fondamentalmente, non avranno una terra dove vivere e lavorare. E come sarebbe possibile, se a sinistra c’è un proprietario, e a destra un altro?” scuote la testa Curricoy.
La lotta per l’identità
Per Gustavo Macayo, ex avvocato della famiglia Curiñanco – Rúa Nahuelquir, il caso di Benetton è particolarmente importante per la sensibilizzazione riguardo la lotta Mapuche. “Questo caso ha messo in luce che la proprietà straniera della terra è un punto molto importante ed ha aperto profonde domande sulla società argentina, domande che non erano mai state poste”. D’altra parte, secondo Macayo, le questioni storiche, etiche e giuridiche sono sempre state occultate e messe a tacere prima che si affermasse l’interesse legale riguardo il caso di Leleque.
“Il problema va ben oltre il piccolo territorio di Leleque. Comprende per lo meno tre province del sud, dove la popolazione Mapuche, molto numerosa, sta prendendo coscienza dei propri diritti riguardo la terra”, aggiunge Macayo.
Curiñanco spera che la notorietà del caso della sua famiglia abbia aiutato alcuni tra i più giovani a riscoprire la propria identità etnica. Nel frattempo molte persone a Buenos Aires probabilmente si sorprenderanno che i ‘popoli della terra’ usano telefoni cellulari, guidano autovetture, guardano la televisione, parlano spagnolo tra loro e che si occupano di molte attività considerate “normali” dagli occidentali, ma alcune differenze tra le culture continuano ad essere ovvie.
Emmanuel Maripi di Comodoro Rivadavia ha 21 anni e le sue variegate origini comprendono antenati europei ed indigeni. Scoprì di avere sangue Mapuche quando compì 18 anni e da quel momento ha iniziato ad apprendere di più sulla cultura dei suoi nonni e a praticare gli usi e i costumi tradizionali. Quest’anno ha partecipato per la prima volta ad un Kamaruko ed essendo musicista ha imparato alcune canzoni Mapuche per cantarle nel festival. “Vivo la mia vita in città come qualsiasi altra persona della mia età”, dice Emmanuel durante un momento di riposo tra un’esibizione e l’altra. “Studio, lavoro, esco con gli amici, organizzo eventi musicali e vi partecipo. Nello stesso tempo, noto che una gran parte della mia identità appartiene alla società Mapuche, quindi cerco di trascorrere del tempo nella natura per capire meglio il mio essere Mapuche”.
“Ciò nonostante, ci sono anche altri esempi, quando il nostro popolo si arrende o addirittura ci critica” dice con tristezza Curiñanco. “Alcuni di loro non si considerano Mapuche e si vergognano delle proprie radici”.
“Molte di queste persone vivono nelle città e molto rapidamente si ritrovano emarginati, e macchiano il buon nome di tutto il gruppo etnico che viene così definito pericoloso e criminale”, Curricoy interviene nella conversazione e cita esempi di grandi città come Buenos Aires e Bariloche, quest’ultima conta infatti un gran numero di discendenti Mapuche.
D’altro canto, coloro che visitano la comunità Mapuche a Leleque sono sempre benvenuti. “Riceviamo visite da ogni parte del mondo”, ricorda Rosa Rúa Nahuelquir, “giornalisti, attivisti per i diritti umani, artisti e un sacco di polizia”. Su questa ultima parola sorride ironicamente. “Le nostre porte sono aperte a tutti, non importa se chi entra è Mapuche o è un uomo bianco e non sappiamo mai per certo se possiamo fidarci dei nostri visitatori. Però lo facciamo ugualmente, non impariamo mai dai nostri errori…”.
Rosa ha ragione. Negli otto giorni trascorsi a Santa rosa di Leleque, le visite da parte di persone esterne erano praticamente quotidiane. Ognuno dei visitatori è stato ricevuto calorosamente ed è stato invitato a condividere cibo, mate e chiacchiere con gli abitanti.
Alcuni ospiti sono diventati amici per la vita, tra i quali Florencia Santucho, direttrice del Festival Indipendente di Cinema per i diritti umani di Buenos Aires. Santucho sostiene la famiglia Curiñanco – Rúa Nahuelquir dal 2003. Circa nove anni fa ha prodotto un documentario intitolato MariciWeu che parla della famiglia Curiñanco – Rúa Nahuelquir e pone delle domande sulla violazione dei diritti umani. Santucho non è solamente considerata un’amica di questa comunità bensì una componente Mapuche che impara sempre cose nuove riesce a fare suoi alcuni aspetti della cultura indigena.
“Quando si arriverà a comprendere le visione del mondo secondo i Mapuche non ci saranno più domande”, assicura Santucho. “Il recupero della terra è una parte della cosmovisione, che permette ai Mapuche di rafforzare alcuni aspetti della loro identità”. E aggiunge, parlando di Atilio Curiñanco: “Era una persona molto timida che parlava poco e non sembrava assolutamente sicuro di se stesso. Adesso lo osservo e noto in lui dignità e fermezza, e sono sicura che questa determinazione proviene dalla lotta per la terra, per l’identità e dalla stretta relazione che ha instaurato con la terra stessa. Ñoque Mapu (La Madre Terra) ti premia donandoti maggior potere”.
Quando le civiltà si scontrano.
“I potenti hanno sempre più diritti, però noi abbiamo valori diversi che non coincidono con lo stile di vita occidentale”, Curiñanco guarda la Ruta 40 che passa a pochi metri da casa sua. “Alcune persone ci considerano arretrati per la nostra visione e per i nostri principi, ma avere un’altra mentalità non significa distruggerla con regole cha si oppongono alla nostra visione” .
Leleque oggi rappresenta un luogo, dove due civiltà si stanno scontrando con le proprie differenze fondamentali. Da una parte c’è il proprietario di una grande multinazionale con una rete di oltre 6.500 negozi, con un fatturato di 2 milioni di euro annui, e più di 900.000 ettari di terra patagonica. Dall’altra parte c’è la comunità Mapuche, che crede in un stile vita comunitario e semplice, auto sostenibile.
“Negli ultimi dieci anni abbiamo osservato come Benetton abbia cercato di evitare questo problema e di presentarlo come un fatto di piccola entità e di poca importanza. Credo che continuerà a seguire questa strategia”. Macayo parla del futuro della causa. “I Mapuche faranno tutto il possibile per mettere in luce i problemi, a partire da quello fondamentale – la colonizzazione”.
Nel frattempo, la famiglia Curiñanco – Rúa Nahuelquir è coinvolta in un’altra querela penale presentata dalla CTSA, che adesso ha preso di mira l’INAI, un’istituzione che lavora con i popoli indigeni, e fornisce supporto legale alla famiglia Mapuche. Per il momento la causa è al vaglio della Corte Suprema e, data la sua complessità, i tempi potrebbero dilatarsi di due o tre anni.
“Ovviamente continueremo a lottare, non un passo indietro”, Curiñanco ribadisce la sua posizione. I suoi occhi brillano e la sua voce diventa più forte. “Questa è la nostra terra e noi ne siamo i responsabili. Ci ha dato talmente tanto che sarebbe un crimine non prendersi cura di lei…”.
Mentre parliamo, dall’altra parte della stanza, la piccola Rosita, una nipote di Curiñanco – Rúa Nahuelquir, sta imparando alcune parole base di italiano da Fabio, un fotografo italiano che è approdato a Leleque con un suo progetto personale. Rosita impara la nuova lingua molto rapidamente e la usa subito, per poi ritornare allo spagnolo, inserendo anche alcune parole in Mapusungun. Questa piccola scena rappresenta un’ulteriore speranza di dialogo tra le nostre civiltà, ma questo richiede una grande volontà da entrambe le parti.
Traduzione: Raoul Resta
raoresta@gmail.com