Ci dicono che vogliono abolire la fame nel mondo, che se ciò non sarà possibile nel 2015, allora sarà per più tardi. Oggi, con gli Obiettivi del Millennio per lo sviluppo (OMD) diventati caduci senza, naturalmente, aver nulla ottenuto, si inventano nuovi concetti come “l’Agenda per lo sviluppo Post-2015„ ci dicono di mantenere viva la speranza e dare loro fiducia, lasciarli fare, perché stavolta “è la volta buona„. E la storia, o meglio la menzogna, si ripete ancora una volta.

Gli obiettivi del millennio per lo sviluppo, incentivati dalle Nazioni Unite nell’anno 2000, non sono più che carta straccia, e tale sarà anche la sorte dell’Agenda per lo sviluppo Post-2015, o di quanto seguirà. E ciò perché mettere un termine alla fame nel mondo non dipende da dichiarazioni e da buone intenzioni, né da accordi firmati, né da una direzione chiara e decisa nelle alte sfere; dipende soltanto ed esclusivamente da una volontà politica. E quest’ultima non esiste.

Queste questioni sono state affrontate dal vertice ONU sulla fame, la sicurezza alimentare e la nutrizione svoltosi dal 4 aprile a Madrid, nel quadro di una serie di dialoghi internazionali promossi dall’ONU, e che ha visto lriuniti il suo segretario generale, Ban Ki-moon, il capo del governo spagnolo Mariano Rajoy, ed il fiore fior dell’ONU e dei rappresentanti del mondo patronale, accademico, ecc. Obiettivo: discutere su come affrontare il problema della fame da partire dal 2015, data di scadenza per l’OMD. Ma, se sono gli stessi governi che ci hanno condotti alla situazione presente a dirigere questo processo, allora si è partiti davvero male.

Vista la loro frenesia di tagli di bilancio che hanno fatto esplodere le cifre della fame sia su scala locale che su scala internazionale, non ci si può aspettare molto, o piuttosto non ci si può aspettare nulla di buono. Secondo i dati dell’Istituto nazionale di statistica del 2010, si ritiene che almeno 1,1 milioni di persone soffrano la fame nello Stato spagnolo e non consumino le calorie e le proteine minime necessarie. Una cifra che, nel contesto attuale di crisi economica e sociale, di disoccupazione e di precarietà, è certamente ancora cresciuta. E non è tutto. Il governo spagnolo, anfitrione del vertice dell’ONU, è lo stesso che ha rdotto ai minimi termini l’aiuto pubblico allo sviluppo, riducendola alla sua espressione più minuscola – ai livelli di 1990, e facendo della Spagna il fanalino di coda nell’Unione europea. La solidarietà di questo governo con i paesi del sud equivale a zero.

Le Nazioni Unite ci dicono che per mettere fine alla fame dobbiamo favorire la crescita. Come lo sottolinea nella propria relazione “Lo stato d’insicurezza alimentare nel mondo nel 2012„: “I poveri devono partecipare al processo di crescita ed ai suoi vantaggi. La crescita deve essere raggiunta con la partecipazione dei poveri ed estendersi a quest’ultimi„. E aggiunge: “La crescita agricola è particolarmente efficace per ridurre la fame e la malnutrizione„.

Ma non è lì il problema. Non si tratta di far ripartire nuovamente la macchina della crescita economica, come se si trattasse di una formula magica. Ciò di cui abbiamo bisogno è di ridistribuzione e di giustizia. In particolare nelle politiche agrarie ed alimentari, in cui tonnellate di prodotti alimentari finiscono tutti i giorni nelle pattumiere mentre 870 milioni di persone nel mondo soffrono la fame. Non ci occorrono “più ricchezze concentrate in poche mani„, ma più democrazia.

Secondo l’organizzazione GRAIN, dagli anni 60 la produzione alimentare è triplicata, mentre la popolazione mondiale è solo che raddoppiata. C’è una enorme disponibilità di cibo, di gran lunga maggiore che im qualsiasi altro periodo della nostra storia, ma se non si ha denaro per comperarlo, accesso alla terra, all’acqua, alle sementi per produrla, allora non si mangia. Non si tratta dunque di produrre più cibo bensì di distribuire quello che già esiste. È tutto il modello agroalimentare, al servizio di pochi interessi privati, ad essere in causa.

Mass media e istituzioni internazionali ci dicono che la fame è frutto di fenomeni meteorologici e di conflitti armati. Non soltanto e non soprattutto. Le cause della fame sono politiche e hanno a che vedere con quelli che controllano le politiche agrarie ed alimentari, con quelli che ne traggono profitto e nelle mani dei quali si trovano i mezzi di produzione degli alimenti.

Solo così si può spiegare il fatto che un paese come Haiti, per esempio, che negli anni 70 produceva riso a sufficienza per sfamare la propria popolazione, si trovi ad essere oggi uno dei paesi più colpiti dalla fame. Dagli anni 80 fino ad oggi, le politiche di liberalizzazione commerciale e d’invasione dei suoi mercati con prodotti sovvenzionati di multinazionali del Nord, venduti al di sotto dei loro prezzi di produzione, hanno distrutto i suoi sistemi agricoli, eliminato la sua sovranità alimentare e l’ha trasformato in paese dipendente dall’acquisto di prodotti alimentari da imprese straniere. Non è il caso che ha condotto, come tanti altri paesi, Haiti alla fame, bensì la politica.

Nel contesto attuale di crisi profonda del sistema, i beni comuni si trasformano in una nuova fonte di profitto per il capitale. Si intensifica l’accaparramento delle terre, la privatizzazione dell’acqua, la speculazione sui prodotti alimentari. In altre parole, ciò che il geografo David Harvey chiama “l’accumulo con espropriazione„. O come diventare ricco privatizzando ciò che appartiene alla maggioranza. E questi processi non fanno altro che aggravare le cause della fame, lasciando folle di gente senza diritto di mangiare.

*Article pubblicato nel giornale Público, 04/04/2013.

Traduzione dal francese di Giuseppina Vecchia