Il 29 gennaio 2013 i rappresentanti israeliani hanno ricevuto l’ordine dal proprio governo di non presentarsi all’annuale relazione che il Consiglio ONU per i Diritti Umani organizza ogni anno. Si tratta della Revisione Universale e Periodica (UPR) e il boicottaggio israeliano è stato il primo caso nella storia di questo meccanismo del Consiglio ONU che ha sede a Ginevra.

Il sospetto che Israele non si presentasse, aveva preceduto quella data e tuttavia, il 29 gennaio la delusione non ha risparmiato i presenti. Il Consiglio non ha avuto altra scelta se non rinviare l’esame a novembre.

Pur non essendo membro del Consiglio, Israele è tenuto a presentarsi alla riunione annuale come Stato membro ONU.

A marzo scorso il Consiglio aveva avviato un’indagine sulle violazioni prodotte dalle colonie illegali sui Diritti Umani del popolo palestinese. In reazione, Israele aveva informato di voler sospendere le relazioni con i suoi 47 membri.

Era il 12 maggio quando, in via formale, Israele comunicava alle Nazioni Unite che non avrebbe più cooperato con l’Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani, con il Consiglio e con tutti gli uffici a essi collegati.

Poi a luglio era stato vietato l’ingresso nel Paese agli esperti del Consiglio.

La scelta di Israele mette in ombra la propria posizione nella comunità internazionale, ma rischia pure di essere un cattivo esempio per altri Stati e pone in discussione la credibilità del meccanismo di UPR.

Se Israele si fosse presentato, non avrebbe dovuto semplicemente fare ciò che aveva auspicato qualche giorno prima dell’incontro l’ambasciatore USA all’Onu, Donahoe, e cioè Fornire la propria versione della storia .

Perché non si può ritenere attendibile la narrazione di una Potenza Occupante mentre le sue violazioni sono nel pieno del proprio corso.

Israele è consapevole che, se avesse assistito alla sessione, avrebbe ricevuto gravi condanne per l’inarrestabile processo di colonizzazione della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, per il trattamento disumano nei confronti di detenuti e prigionieri, per il protrarsi dell’assedio sulla Striscia di Gaza e per l’ultima guerra di novembre scorso.

Sul fronte delle gravi uccisioni di massa commesse dal feroce apparato militare, con la Guerra su Gaza del 2008-2009 e l’ultima vasta operazione militare di circa tre mesi fa, esperti e attivisti sono determinati a portare i responsabili israeliani davanti alla Corte Penale Internazionale che ha competenza per i gravi Crimini.

La colonizzazione della terra palestinese riceve invece, maggiore attenzione, e preoccupazioni, dalla sede ginevrina ONU come pure, a momenti alterni, dai rappresentanti europei.

A più riprese sono state stilate relazioni sulle gravi conseguenze che le colonie illegali israeliane producono sulla vita dei palestinesi e come la loro presenza renda pericolosamente irreversibile una soluzione, perché la terra è il nucleo dell’intera questione.

A ottobre Richard Falk, Relatore Speciale del Consiglio ONU per i Diritti Umani, denunciava responsabilità internazionali di numerose compagnie americane, europee e messicane che intrattengono rapporti di affari con le colonie, sfruttando le risorse dei palestinesi.

Sono attività commerciali in senso stretto e di diretta fornitura per la protezione e la sicurezza dei coloni.

La posizione maggioritaria presso la comunità internazionale è che le colonie sono illegali poiché un’esplicita violazione alla IV Convenzione di Ginevra e identico è il parere espresso dalla Corte Internazionale di Giustizia.

Una settimana fa, a due giorni dalla sessione boicottata, il Consiglio ONU pubblica un rapporto in cui chieda a Israele:

di ritirare tutti i coloni dalla Cisgiordania oppure, potenzialmente, dovrà affrontare la Corte Penale Internazionale per gravi violazioni alla legge internazionale.

Ogni attività di colonizzazione nei Territori palestinesi occupati deve avere fine senza precondizioni e immediatamente deve avere seguito un processo per il ritiro di tutti i coloni.

Altra referenza di rilievo è data dallo Statuto di Roma, che regola il Tribunale Penale Internazionale sul quale ricade la competenza per i crimini derivanti dalla colonizzazione: deportazione diretta o provocata come accade a Gerusalemme con il cosiddetto quiete tranfer.

L’indagine è stata accompagna da decine di interviste condotte in Giordania a palestinesi sull’impatto di colonie, confische, danneggiamento della terra, attacchi e violenza diffusa di coloni israeliani.

Nelle conclusioni del rapporto si legge che gli atti dei coloni sono diretti all’espulsione dei palestinesi (…) si tratta di una forma di transfer forzato e di una politica di pulizia etnica.

Sono oltre 250 le colonie che Israele ha costruito in Cisgiordania e a Gerusalemme Est dall’occupazione del 1967. Sono abitate da oltre 500mila coloni provenienti da ogni parte del mondo grazie a programmi sovvenzionati dal governo israeliano.

Di fronte all’ennesima sollecitazione a Israele questo reitera il proprio atteggiamento e si limita a definire il rapporto “controproducente e sfortunato”, similmente a come aveva reagito di fronte al rapporto Goldstone, vietando di volta in volta l’ingresso a personalità come allo stesso Falk (dal 2008) e oggi, con la sua grande assenza alla riunione sui Diritti Umani.

Quando i palestinesi sono stati promossi a Stato osservatore presso le Nazioni Unite, Israele ha annunciato una corsa alla colonizzazione, a cominciare da Gerusalemme nella sezione E1, ultimo atto per separare una volta per tutte la città dal resto dei Territori palestinesi occupati e grave impedimento alla realizzazione di uno Stato palestinese geograficamente “sostenibile”.