Con questo articolo Elisa Gennaro inizia la sua collaborazione con Pressenza sui temi specifici legati al Mondo Arabo; dalla redazione di Pressenza un cordiale benvenuto!!

Come si quantificano le violazioni ai diritti umani? Per gravità o per il protrarsi nel tempo, per il numero di persone che le subiscono oppure in misura all’eco mediatico che ricevono? Chi dice ancora “sahrawi” nel mondo, al di fuori di qualche agenzia umanitaria in grado di raggiungere la loro realtà?

I sahrawi sono condannati a vivere dietro il sipario di altrui manovre sul loro destino di popolo e di nazione.

La storia rientra in un format in cui dominano negazioni e non riconoscimento di identità, storia e diritto di esistere, la cronaca racconta di detenzioni politiche con abusi e maltrattamenti per mezzo di tortura, dell’impedimento all’esercizio del diritto allo studio e della distruzione del processo di trasmissione e di produzione culturale; elementi che dovrebbero garantire la loro esistenza di comunità.

Per il popolo sahrawi la vita si “completa” interamente tra la reclusione e l’indigenza di campi profughi, dai quali non è dato loro uscire perché vige il divieto a disporre del territorio rivendicato e ad oggi occupato dal Marocco; un’area seminata di mine anti-uomo e pari all’80% dei territori del Sahara Occidentale.

Per essi non esiste il diritto alla libera circolazione e la censura mediatica aggrava il ferreo divieto d’accesso imposto ai difensori dei Diritti Umani.

La perpetua condizione sahrawi è scandita dall’attivismo politico-diplomatico diretto a scongiurare qualunque percorso di giustizia per la parte abusata. Queste le tematiche di sempre sul caso sahrawi, in queste settimane, aggravate dagli ultimissimi episodi.

Il 18 settembre scorso, il Relatore Speciale Onu sulla Tortura, Juan Mendez, ha incontrato esponenti sahrawi.

A distanza di poche ore dalla sua visita è partita la rappresaglia delle guardie marocchine nella tristemente nota Black Jail, prigione situata nella città occupata di al-‘Aiun, dove marciscono 15 detenuti politici sahrawi, molti dei quali hanno ricevuto lunghe e arbitrarie pene carcerarie. I detenuti hanno subito assalti e aggressioni fisiche.

Mentre i fatti di cronaca si susseguivano nel mezzo dell’indifferenza generale, la questione veniva ripresa in sede di comunità internazionale.

Lo scorso 9 ottobre, una Commissione Onu si è riunita per fare un aggiornamento sulla condizione dei sahrawi. Non si è parlato di Questione sahrawi, né di decennale causa per la liberazione dall’occupazione, e quando un’istanza per l’indipendenza viene affrontata in termini “umanitari” quella causa è già persa.

Ciò che è emerso dal rapporto della Commissione è stato segnato, ancora una volta, da espressioni come “stato di terrore e atrocità” a cui un popolo intero è sottoposto. Gli intervenuti hanno rinnovato le proprie preoccupazioni a causa del protrarsi delle sparizioni di attivisti o di semplici cittadini della comunità sahrawi, per l’arbitrarietà delle detenzioni e per gli sfollamenti interni conseguenti a insicurezza, tensioni e raid devastanti.

Quello ai danni del popolo sahrawi resta un genocidio – come è stato dichiarato anche il 9 ottobre – nella specificità del significato giuridico che lo ha connotato nella storia: “l’annientare parte o per intero, un gruppo etnico, nazionale, razziale o religioso, spesso ricorrendo a pratiche crudeli contro le fasce più vulnerabili. L’intenzione si svela dalla sistematicità di tali pratiche”.

Così come si registra la grande assenza del popolo sahrawi dai Mass Media, anche nella trattazione in sede Onu, il principio di decolonizzazione da sempre riconosciuto ai sahrawi dalla comunità internazionale sembra essere stato accantonato.

Se l’Onu annovera il Sahara Occidentale tra i Paesi non autogovernati, e se a distanza di anni riecheggia ancora forte il parere della Corte di Giustizia secondo cui non si applica a questi territori il principio di terra nullis, l’autodeterminazione politico-statale resta una mera dichiarazione d’intenti. Di riflesso, essa sarà irrealizzabile pure in senso economico per la gestione delle risorse dei territori del Sahara Occidentale.

Amaramente prevedibile, dietro il dramma del popolo Sahrawi, una successione di storie di violazioni che sfociano nel genocidio, si rivelano interessi puramente economici da parte di terzi sul territorio sotto occupazione marocchina con l’utile consenso spagnolo e l’avallo internazionale.

“Un furto vergognoso” è stato definito ancora lo scorso 9 ottobre in sede Onu quello delle ricchezze del Sahara Occidentale spartito in sede privata tra Spagna, Marocco e Mauritania con gli Accordi di Madrid del 1975, e sempre al centro delle relazioni commerciali tra Marocco e Spagna, ma anche Unione Europea.

Dopo lo scarto in commercio del fosfato per ovvie ragioni pratiche, l’attività ittica resta la ricchezza principale usurpata al popolo sahrawi congiuntamente alla sovranità su terra e accesso alle acque territoriali.

Il Marocco è l’unico Paese del Nord Africa a beneficiare di un rapporto privilegiato con l’Unione Europea, conosce bene il gradimento delle liberalizzazioni volte a favorire gli investimenti dall’estero, ed è consapevole del suo ruolo geopolitico delle esternalizzazioni, vale a dire degli interventi di carattere preventivo diretti a fermare il fenomeno delle migrazioni di massa verso l’Europa.

Prolungare e posticipare la risoluzione per la cessione e la gestione delle risorse, censurare la crisi umanitaria e riportare in auge un processo politico nel momento in cui la rappresentanza sahrawi è ai massimi storici della disintegrazione non è un buon segnale.

Sotto gli auspici Onu, il Fronte Polisario e il Marocco potrebbero riavvicinarsi attraverso negoziati diretti.

La storia ci insegna che, in gran parte dei casi, le forme di autodeterminazione prodotte dalla decolonizzazione si sono realizzate secondo il protocollo di governi autonomi che tuttavia non hanno disposto di alcun territorio sul quale esercitare sovranità e libertà.

Alle soglie di questa ipotesi negoziale tra le parti, non si sente infatti discutere di referendum – quanto assicurerebbe il diritto di parola ai sahrawi – perché esso metterebbe a repentaglio l’idea di autonomia “senza territorio”, che ha in mente il Marocco per il popolo sahrawi.

Dall’asimmetria delle posizioni è tanto più probabile che ciò a cui assisteremo non sarà niente di più di un’autodeterminazione sottoposta alla geografia coloniale di sempre.

Elisa Gennaro