In realtà per chi conosce il paradigma dei “neuroni specchio” nell’ambito delle neuroscienze dovrebbe essere chiaro come la distanza fra pensiero ed azione si sia clamorosamente azzerata, così come fra organi di senso ed attività motoria. L’uomo per esemplificazione tende a distinguere fra funzioni sensitivo-sensoriali e funzioni muscolari, ma il nostro cervello nella realtà opera in maniera sincronica: nel momento stesso in cui osserva simula dentro di sé i movimenti che per esperienza potrebbe riuscire ad imitare.

L’azione del conoscere è però così determinata dalle tante verifiche successive che avvengono nella nostra mente da venire catalogata nell’ambito del pensiero umano, mentre io sarei del parere che di azione bella e buona si tratti, se non per il fatto che necessita di uno sforzo e un sacrificio talora sovrumani. Forse per questo Giordano Bruno sosteneva che la filosofia facesse avvicinare l’uomo a Dio?

Il termine epistemologia sta ad indicare le origini, la struttura, i metodi e la validità delle forme di conoscenza. Le domande a cui cerca di rispondere questo ramo della filosofia sono quindi:

1) Da dove ha origine la nostra conoscenza?

2) Come si stratifica nell’entità psichica individuale e nella sfera culturale?

3) Quali sono gli strumenti più adeguati a conoscere?

4) Quali sono i criteri che permettono di fornire una garanzia di verità o di valore ai nostri occhi o al nostro immaginario?

Rispondere con sicurezza a queste domande potrebbe portarci già fin dall’inizio sull’orlo del baratro.

E’ preferibile piuttosto scoprire cosa intendevano gli antichi Greci con questo termine, anche considerando il modo con cui i loro pronipoti rischiano di essere trattati nell’attuale Comunità europea, che rischia di essere nata e terminata per ragioni solamente commerciali.

Ebbene nel Cratilo, dialogo platonico in cui Socrate fornisce una spiegazione di alcuni termini, l’”episteme” avviene quando l’anima segue dappresso le cose (hepetai) ovvero è quel “qualcosa che ferma (la radice del verbo “istemi”, fermare cfr. stasi) l’anima sulle cose (“epi”, sopra), dove per anima deve intendersi il pensiero umano.

Qual è allora il luogo dove la verità è indiscutibile ed inattaccabile, il luogo indipendente del sapere assoluto? C’è forse una forma di conoscenza che in qualche modo si pone al di sopra di tutte le altre, tale da metterci nella condizione di comprendere meglio il mondo che ci circonda?
Mettiamola così: sarebbe comodo se questo esistesse, sarebbe la prima cosa da far studiare alle nuove generazioni, ma l’esperienza dei veri anziani dovrebbe bastare a dirci che non è così.

Non è così per più di un motivo: perché la conoscenza dell’uomo è per definizione limitata dal tempo a sua disposizione, perché la natura per quanto sia ordinata è molto più complessa di quanto vorrebbero farci credere i dettami riduzionistici, perché gli aspetti poliedrici della vita non sono esaminabili guardando solo una delle facce di un cubo, perché la ragione da sola non riesce a spiegarmi il bello della vita, perché la dignità dell’essere umano la scopri più nella sua capacità di rinascita dopo una catastrofe piuttosto che nel continuum delle sue conquiste.
Eppure c’è per ciascuno di noi un appiglio sicuro a cui fare da riferimento, sempre che non ci faccia mai cadere nel lago stagnante della certezza assoluta, perché talora è proprio dal sussultamento tellurico delle verità ritenute fino a quel momento inattaccabili che sono nate le grandi scoperte.

Se abbiamo scelto la nostra professione non per fare soldi o per soddisfare la famiglia ma perché credevamo nelle premesse filosofiche e scientifiche degli studi effettuati di solito lì potremmo trovare il nostro primo riferimento speculativo.
Nell’era post-tecnologica che ci contraddistingue siamo tentati a pensare che la scienza potrebbe esercitare il compito di battistrada verso il futuro. Non vi nascondo che come medico per molto tempo ho pensato anch’io ad un ruolo della scienza in questo senso.

Del resto Platone stesso nel dialogo Teeteto fa dire a Socrate:

– Pensi che “sofia” ed “episteme” siano la stessa cosa?
La domanda porta al dubbio non solo l’interlocutore del momento, ma ha condotto le generazioni successive a considerare seriamente la possibilità che le due cose fossero differenti campi del sapere.

Questa contrapposizione ha portato la nostra cultura a contrapporre la filo-sofia alla scienza dell’episteme, intesa come filosofia della conoscenza certa, ovvero della scienza.
Questo ha portato ad un contraddittorio difficilmente sanabile, se non in tempi più recenti, inducendo la popolazione a pensare che tutto ciò che fosse scientifico potesse essere ritenuto giusto e giustificabile, mentre quello che era escluso dai canoni del metodo scientifico dovesse essere ritenuto non dimostrabile e quindi falso.

Così possono essere spazzati o derisi i bisogni spirituali o di salute delle persone, anzi è giustificabile strumentalizzarli e quindi farne un industria e perché no? Perfino una guerra.

Così posso portare intere popolazioni ad odiarne altre sulla base di differenze di razza, oppure di differenze alla nascita, per ceto sociale o per appartenenza ad un gruppo etnico minore, oppure ancora per handicap fisici.

La complessità del mondo che ci circonda per essere compresa ha bisogno di diversi punti di vista, rispettando le diverse esperienze e le diverse culture, senza nascondere i limiti del nostro essere fisico e conoscitivo. Dovremmo imparare in questo dalla natura, che ci mostra sì come essere competitivi, ma rispettando le più piccole forme di vita, senza le quali non è possibile alcun tipo di evoluzione.

Forse per questo motivo Gregory Bateson utilizzava il termine epistemologia non più soltanto per indicare le condizioni di conoscenza ma anche per indicare la “sacra unità della biosfera”, intendendo con questo termine tutte le creature viventi in relazione fra loro capaci di conoscere, pensare e decidere.

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Quest’articolo è pubblicato in condivisione con L’accento di Socrate.