In Italia la Cultura, quale bagaglio comune alimentato di giorno in giorno, al pari di tutte
le altre peculiari attività quotidiane del vivere civile in tempo di pace, è morta. Non è una
provocazione ma un dato di fatto: in Italia la Cultura, e attenzione si badi bene non parlo
di occasionali guizzi di eccellenza attribuibili a singolarità che riescono a spiccare, bensì
di quella Cultura come insieme di tutte le attività umane che appagano il comune senso
della curiosità tra passione e ingegno, tra l’apprendimento costante dell’individuo e la
progressione emancipante della collettività, appunto, semplicemente, tale percezione della
Cultura non c’è più, non si fa, non avanza.

Diaz è quella scintilla di singolare valore socioculturale che forse sarà in grado di far
deflagrare il cosmo dormiente dell’humus di valore, ad oggi sommerso, così peculiare a
noi italiani.

Diaz è un film spartiacque. Mi spiego meglio: se per gli statunitensi un film spartiacque
è stato Easy Rider, un film del 1968 che promuoveva l’apologesi della cultura della
Contestazione e raccoglieva tutta l’eredità della cultura dei padri, tra viaggio e frontiera,
e la declinava a favore di una controcultura eruttiva qual era quella che dalle università e
dalle piazze, tra minoranze ed esasperazione, stava per diventare un fenomeno mitologico
di massa tra figli dei fiori e nuovi valori generazionali, così il nostro Diaz ha la forza
dirompente di un Easy Rider e il potere salvifico della riflessione che sorge in ogni mente
che si accinge a guardarlo.

Diaz rappresenta la parte sana dell’Italia, quella che lavora alacremente e che a testa
bassa vuole andare avanti il più possibile prima che venga raggiunto il punto di ebollizione;
Diaz ci dice che quella Italia è stata in grado di raccontare a occhi aperti e con la testa
fuori dalla sabbia un fatto di cronaca nostrano con uno sguardo non ombelicale (tale
invece è da oltre 25 anni prendendo in esame la pressoché totalità dei film prodotti da noi).

Quando un popolo riesce da solo a vincere i propri pregiudizi, i propri tabù, lì c’è il germe
della maturazione e della renovatio. Quando il cinema riesce a precorrere i tempi e gli
umori del sentire comune allora bisogna avere il coraggio di perseverare.

Coppola per il suo Apocalypse Now nel 1979 adoperava come canovaccio narrativo il
Cuore di tenebra di Conrad risalente agli inizi del XX secolo per raccontare con poco
meno di una decina di anni di distanza la follia del Vietnam e riuscire così a parafrasare
tutte le guerre sporche statunitensi da lì a venire.

Manzoni adoperava l’espediente del romanzo storico calando le vicissitudini de I Promessi Sposi nell’Italia del XVII secolo per istigare un senso patriottico nell’Italia del XIX secolo.

Diaz racconta all’Italia che siamo oggi e al mondo che viene a fare i documentari su di
noi per aver inventato la prima dittatura mediatica della storia, un fatto dell’Italia di ieri, di
appena 11 anni prima, per ammonire chi già sa cosa va scongiurato finché si é in tempo.

Diaz ha un primato assoluto: è il primo film italiano che parla della violenza raccontandola
senza alcun tabù edulcorante, senza riserve e senza mai, ma dico mai, scadere nella
retorica. Vicari è stato persino più bravo di Michael Moore, che con il documentario
Fahrenheit 9/11, quantunque l’epoca lo giustificasse, aveva peccato di faziosità e di
retorica populistica; laddove invece Vicari ha mantenuto costante il ritmo della violenza
senza cercare il climax finale, o l’escalation sensazionalistica. Eppure anche Vicari
sarebbe stato autorizzato dalla sua (nostra) epoca a scadere in una qualche licenza
poetica: alla fine gliel’avrebbero (avremmo) perdonata in virtù di quella riverenza che
scatta nei confronti di simili prodotti cinematografici che informano la platea di ispirarsi a
fatti reali.

E invece no, Diaz non vuole vincere hic et nunc la battaglia dei catenacci sui giornali, per
passare dal trafiletto all’editoriale, purché se ne parli. È un film sincero che guarda lontano
a chi sopravviverà dopo la tempesta degli indignati e degli occupanti di wall street, a chi
dopo aver letto quest’articolo passa a cercare le foto di Sara Tommasi nuda per strada,
e a chi avrà la fortuna di nascere nell’Italia di domani, migliore di quella di oggi, grazie a
scintille da Big Bang rinascimentali come il film Diaz.