Nell’ambito del terzo festival della nonviolenza e della disobbedienza civile si è svolta giovedì della scorsa settimana la conferenza Afghanistan: storie di guerre e di resistenza organizzata dal coordinamento AGITE; l’obiettivo della conferenza era quello di tenere viva l’attenzione sul paese asiatico e di raccontarlo dal punto di vista storico e dal punto di vista degli attivisti afgani e dei loro corrispondenti italiani.

Il punto di vista storico sull’Afghanistan

Lorenzo Kamel, professore associato del dipartimento di Studi Storici dell’Università di Torino e direttore del Research Studies dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), interviene dal punto di vista storico cercando di fare luce sugli antecedenti degli avvenimenti attuali.

George St Patrick Lawrence (1804-84), un veterano della prima guerra anglo-afghana, scrive nel 1839: “Il disastroso ritiro da Kabul dovrebbe rappresentare un eterno monito per i futuri statisti affinché non ripetano le politiche che hanno portato a un risultato tanto amaro quanto lo è stato quello registrato nel 1839-1842”[1];  queste parole assumono valore profetico alla luce del disordinato ritiro delle forze internazionali dall’Afghanistan dell’agosto scorso.

Ai tempi di Lawrence, Londra investì ingenti risorse per imporre a capo della regione Shah Shuja Durrani, un sovrano «sensibile» agli interessi di Londra, ma considerato un uomo violento e corrotto da larga parte della popolazione locale che protestò contro questa imposizione. Questa forma mentale (dividere la popolazione allo scopo di imporre regimi) rimase anche nei decenni successivi e trova la sua rappresentazione più plastica nella così detta linea Durand, la linea di confine tra Afghanistan e Pakistan tracciata dagli inglesi senza considerare l’etnia delle popolazioni coinvolte.

Nel 2001, la sete di vendetta dell’allora presidente Bush e dei suoi alleati nei confronti di Al Qaida, che in realtà aveva basi più solide in Pakistan ed Arabia Saudita, non lasciò molto spazio alle analisi storiche, politiche e culturali sull’Afghanistan; ancora oggi il dibattito dei media si concentra su taluni aspetti contemporanei rendendo la realtà afgana incomprensibile ed avulsa da una qualche logica che invece appare chiara con un’analisi dal punto di vista storico.

Per esempio, si parla dei diritti delle donne e del loro miglioramento negli ultimi vent’anni grazie all’intervento di USA ed alleati, confrontando la situazione attuale con quella del periodo 1996-2001 in cui erano già al potere i Talebani[2]. Sarebbe più corretto fare un confronto con altri periodi, ad esempio con il periodo del regno di Mohammed Zahir Shah (1933-1973) in cui la condizione femminile in Afghanistan era migliore e l’emancipazione delle donne era un obiettivo possibile.

Come è possibile ritrovare al potere un movimento talebano che giustifica mutilazioni e lapidazioni nel 2021?

I talebani originali erano ex orfani con istruzione elementare e non hanno prodotto nessuna opera o discussione teologica degna di nota. Il loro potere si basa sulla produzione di eroina che ha consentito loro di controllare oltre metà dell’Afghanistan già nel 2013; eroina che viene consumata per il 95% in Europa (in particolare Regno Unito ed Italia) e rappresenta ancora una delle pochissime boccate di ossigeno del regime.

Gli stati occidentali non stanno aiutando gli afgani anzi con la loro azione hanno peggiorato la situazione; il destino degli afgani ci deve preoccupare perché da un punto di vista storico sappiamo che ciò che inizia in Afghanistan non rimane in Afghanistan.

Il punto di vista degli attivisti afgani e dei loro corrispondenti italiani

Anna Santarello, attivista di CISDA (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane), racconta l’Afghanistan dal punto di vista di chi sta ed opera sul posto; il CISDA lavora con associazioni di donne afgane dal 1999 e dal suo punto di vista è possibile dire che si sta riproponendo la stessa situazione dell’inizio del regime talebano.

Gli attivisti del CISDA sono rimasti spiazzati dal rapido susseguirsi degli avvenimenti di agosto anche se i referenti in Afghanistan sapevano che la situazione si sarebbe evoluta in questo senso dopo gli accordi di Doha; gli Stati Uniti hanno deciso di cambiare strategia, ovvero togliere gli uomini dal campo e difendere i propri interessi in altro modo, sono infatti previsti altri incontri tra Stati Uniti e Talebani a Doha di cui solo in futuro vedremo le conseguenze.

Sul posto si è creato un terribile problema umanitario, con milioni di profughi interni.

Il CISDA ha chiesto alle donne afgane di cosa avessero bisogno ed ha fatto partire una raccolta fondi per le emergenze. Un’altra azione è stata quella di avviare la piattaforma Stand up for change with Afgan Woman con eventi in tutta Italia per mantenere viva l’attenzione sull’Afghanistan.

Samia, attivista di RAWA (Revolutionary Association of Women of Afghanistan), è intervenuta a distanza in inglese.

RAWA è una delle più vecchie associazioni di donne afgane: è stata fondata nel 1977 da Meena Keshwar Kamal e ha un’impostazione fortemente politica che la costringe da tempo alla clandestinità, in parte anche durante l’occupazione occidentale. La stessa fondatrice è stata assassinata nel 1987 dai servizi segreti afgani.

Da RAWA, che ha deciso di restare e continuare ad operare in Afghanistan, arriva questo messaggio: “Troveremo il modo di proseguire la nostra lotta a seconda della situazione. È difficile dire come, ma sicuramente porteremo avanti le nostre attività clandestine come negli anni ’90, durante il precedente governo dei talebani. Certamente questo non sarà esente da rischi e pericoli, ma qualsiasi tipo di Resistenza ha bisogno di sacrifici”.

Samia è attivista di RAWA da otto anni, da quando era adolescente in un campo profughi in Pakistan. Il focus principale dell’organizzazione è politico-sociale con alcuni progetti umanitari: per cambiare la situazione delle donne bisogna attuare cambiamenti che devono essere rivoluzionari ed a medio-lungo periodo.

Tra i progetti umanitari c’è l’alfabetizzazione dei bambini nelle aree remote dell’Afghanistan anche se non si possono specificare meglio i luoghi per ragioni di sicurezza.

Secondo Samia

L’Afghanistan è stato regalato ai Talebani dopo 20 anni di occupazione USA e NATO, crediamo che alcune forze fondamentaliste siano legate ai Servizi Segreti americani.

I talebani dicono che renderanno l’Afghanistan indipendente; venti anni fa gli USA ed i loro alleati hanno occupato l’Afghanistan parlando di democrazia, diritti delle donne e diritti umani; in quel periodo RAWA aveva l’obbiettivo di liberare il paese perché l’occupazione ha sempre generato violenza e caos, il paese è diventato uno dei luoghi più corrotti e pericolosi per le donne.

Si poteva prevedere l’esito attuale perché i poteri imperialisti hanno una loro agenda che non comprende gli interessi delle donne.

La gente dell’Afghanistan è terrorizzata e pensa di non avere un futuro, la situazione per le donne diventa è sempre più difficile e problematica. I talebani dichiarano di aver concesso l’amnistia generalizzata, ma in realtà uccidono persone tutti i giorni soprattutto durante le dimostrazioni ed arrestano e torturano giornalisti ed attivisti.

I talebani sono lo stesso gruppo fondamentalista e misogino di un tempo: le donne non possono andare in ufficio od all’università. Molte attiviste devono operare e vivere in clandestinità, ma non restano in silenzio, manifestano contro l’oppressione.

Non possiamo cambiare la situazione con nuove occupazioni straniere armate, è una responsabilità degli afgani combattere per la propria libertà. RAWA ed altre organizzazioni rivoluzionarie stanno lottando all’interno dell’Afghanistan e chiediamo la vostra solidarietà ed il vostro appoggio.

Giampiero Leo, presidente esecutivo del comitato diritti umani e civili del consiglio regionale del Piemonte, ha chiesto a Samia come aiutare la popolazione afgana, Samia chiede sostegno politico e finanziario, veicolando i messaggi dall’Afghanistan per far comprendere alle opinioni pubbliche europee che il popolo afgano è una vittima.

Chiede di fare pressione sui governi nazionali per non riconoscere il governo talebano a causa delle sue politiche contro i diritti umani e delle donne.

Chiede di tenersi in contatto tramite il CISDA con le attiviste in Afghanistan.

Leo annuncia la proposta di un ordine del giorno del consiglio regionale che chieda al governo italiano di non riconoscere il governo talebano.

Mustapha, rappresentante della comunità afgana di Torino aggiunge alle richieste di Samia quella di creare corridoi umanitari per gli attivisti, per chi è in pericolo di vita e per consentire a studenti e studentesse di completare gli studi in Italia in modo da garantire un futuro diverso all’Afghanistan.

Secondo Mustapha la comunità internazionale ha fatto come un chirurgo che inizia un’operazione e se ne va senza chiudere il paziente e concludere l’intervento; ventenni che sognavano di costruire un Afghanistan nuovo si trovano ora a vivere in questo incubo.

[1] Lorenzo Kamel, “Afghanistanismi, passati e presenti” Il Manifesto del 18 settembre 2021 https://ilmanifesto.it/afghanistanismi-passati-e-presenti/

[2] Il regime talebano del Mullah Omar fu riconosciuto solo da tre stati: Pakistan, Emirati Arabi Uniti ed Arabia Saudita, tutti fedeli alleati degli USA nella regione