In Bolivia è in atto un colpo di stato. Lo è per la semplice ragione che alte cariche dell’esercito hanno chiesto a un presidente legittimamente eletto e in carica fino a gennaio del 2020 di dimettersi. Questo ci ricorda l’ampia tradizione in materia in quella regione.

Poco prima di essere eletto per il primo mandato Evo Morales, in un’intervista, rispose a un giornalista che gli chiedeva come vedeva la sua elezione dicendo che l’entrata non lo preoccupava molto, quel che lo preoccupava era l’uscita dato che negli ultimi trent’anni i presidenti della Bolivia avevano tutti subito un colpo di stato…

Evo Morales si è dimesso e ritirato a casa sua (non scappato come è venuto in mente di dire a qualche media frettoloso avvallando lo scenario tipico del dittatore che scappa che tante volte ci hanno propinato); si è dimesso con tutto il governo come segno concreto a favore della pacificazione del paese, temendo che il rimanere in carica potesse esacerbare gli animi; si è dimesso per cercare di fermare la spirale della violenza.

Evo e il suo governo non sono accusati di nulla. L’accusa previa, che è il tormentone degli ultimi mesi è che dopo il referendum (perso) che chiedeva la possibilità di ripresentarsi alle elezioni c’è stata una sentenza della Corte Costituzionale che gli ha permesso di ripresentarsi lo stesso. Ma presentandosi alle elezioni l’opposizione ha riconosciuto quella sentenza perché se no avrebbe dovuto boicottare delle elezioni illegali; le elezioni sono diventate illegali quando l’opposizione le ha perse con un margine ampio. E la discussione è stata se quel margine ampio fosse sufficiente a evitare un secondo turno (la legge prescrive che si vince col 50% di voti o con uno scarto del 10% sul secondo)

Ma perché fare un colpo di stato?

I colpi di stato si fanno per dei buoni motivi, per esempio per piegare governi che non rispettano i dettami internazionali, soprattutto quelli delle multinazionali finanziarie. Evo Morales cominciò il suo mandato convocando a un tavolo le multinazionali del gas con lo slogan “queremos socios, no enemigos” (vogliamo soci, non nemici); gli altri governi socialisti come il Venezuela avevano risolto il problema delle risorse con le nazionalizzazioni, Evo agì diversamente: mise le mutinazionali a un tavolo con, sullo sfondo, lo spettro delle nazionalizzazioni e disse: se ci mettiamo d’accordo su delle buone royalties noi vi lasciamo i giacimenti e con i soldi che ci date finanziamo il programma sociale del nostro governo. La trattativa funzionò e garantì un po’ di pace e la possibilità di una radicale riforma dello stato boliviano (fin nel nome Repubblica Plurinazionale di Bolivia), una nuova costituzione che riconosce tutte le culture, vieta il transito di ordigni nucleari, ripudia la guerra ecc. e soprattutto la realizzazione di riforme strutturali sociali che hanno dimezzato povertà, analfabetismo, raddoppiato ospedali e presidi sanitari, istituito un sistema di pensioni minime e dato dignità a quella maggioranza di popolazione originaria che dignità non aveva mai avuta.

Ma disgraziatamente il mondo va avanti e il gas naturale non è più la materia prima più appetibile; la nuova frontiera si chiama  litio e, guarda caso, negli ultimi anni si scopre che la Bolivia possiede il più grande giacimento di litio del pianeta. Potrebbe darsi che accedere a questa ricchezza senza dover pagare troppe tasse a un cencioso indio interessi a qualcuno?

In secondo luogo è abbastanza evidente che è da tempo in corso in latinoamerica una campagna contro quello che si autodefinisce il socialismo del terzo millennio che nella Bolivia ha il suo modello ideale con un governo democraticamente eletto che è in carica da molti anni; ora è chiaro che questi governi non sono graditi perché ricordano che un modello dichiarato finito può continuare a funzionare e ad evolversi. Questo agli amanti del pensiero unico non può far piacere. E questo anche se quel modello non ci piacesse del tutto.

Per ultimo la peculiarità della Bolivia, unico paese della regione dove sono gli originari ad avere un presidente e dove, grazie a quel presidente, hanno ripreso dignità e coraggio. E, ancora peggio, un posto dove il vicepresidente è bianco e biondo, dimostrazione vivente e simbolica che è possibile collaborare tra esseri umani.

Disinteresse mediatico e disinformazione

Stiamo seguendo da settimane questa situazione perché ci interessa e ci pare di grande importanza; di contrappasso abbiamo visto, da parte anche della stampa progressista e di sinistra, un gran disinteresse e, con eccezioni, una sostanziale disinformazione. Se questa disinformazione non è fatta ad arte credo che sarebbe bene che la stampa prendesse posizioni coraggiose, soprattutto nel dichiarare che, al di là di errori e incidenti, non è accettabile che si consumi un colpo di stato e che nemmeno si abbia il coraggio di chiamarlo tale. Perché se accettiamo che qualunque banda armata possa prendere il controllo di un paese, dobbiamo chiederci allora che senso hanno le istituzioni democratiche nazionali ed internazionali sempre più ridotte a burattini di poteri che nulla hanno a che fare con la democrazia, con la convivenza civile, con il senso di appartenenza a una comunità. Dobbiamo anche chiederci sul senso del cosiddetto contropotere della stampa che dovrebbe, grazie all’informazione, vigilare e contrastare tutti i soprusi, non avallarli.

E quest’ultima cosa che stiamo dicendo non riguarda un paese che ci sembra lontano e sconosciuto ma riguarda la nostra vita di tutti i giorni, sempre più espropriata di libertà, di ragionevolezza, di senso.