Piano generale. Addentrarsi in una riflessione, seppur breve, sul reddito di cittadinanza richiama una molteplicità di implicazioni di vario genere. Il dibattito in merito è difatti strettamente connesso sia ad un campo di analisi di ampio respiro su diritti e doveri, così come questi vengono sanciti dai diversi dettati costituzionali, sia a tematiche esistenziali, pedagogiche ed umanistiche. Le analisi che centrano la questione dell’evoluzione delle forme di produzione e del mutamento delle loro specificità di carattere sostanziale e formale si trovano, per così dire, “costrette” ad integrarsi con un più vasto orizzonte di riflessione sull’etica riguardante le forme dei rapporti umani e di scambio nelle odierne società industriali e post-moderne. Intrecciandosi in più modi con la critica delle vecchie e nuove modalità di sfruttamento della forza lavoro, la questione del reddito di cittadinanza mostra l’emergenza di una ragionata redistribuzione del lavoro in un’epoca caratterizzata dalla notevole riduzione del fabbisogno di forza-lavoro viva nell’espletamento delle funzioni correlate alla produzione e alla gestione di beni e servizi.[1] Negli anni ‘60 la proposta del “reddito minimo garantito” rientrava all’interno di un vasto programma sociale ed economico fondamentalmente centrato su rivendicazioni fatte valere a fronte dell’incremento dei profitti derivanti dalle attività produttive, ai quali si opponeva la già tangibile riduzione progressiva del fabbisogno di mano d’opera. Questo processo è il frutto della moderna meccanizzazione della produzione e del graduale spostamento dell’istanza “capitale” sul terreno dell’intellettualità, dell’informazione e dell’immateriale.[2] Oggi la necessità sociale della redistribuzione del lavoro, della quale già qualche anno addietro parlava nel dettaglio Giovanni Mazzetti, è divenuta vera e propria emergenza sociale. Quest’ultima chiama in causa la riflessione etica dal momento che il lavoro, e la sua crescente assenza o tendenziale scomparsa, è elemento che dà forma alla vita sul doppio versante del fabbisogno biologico-naturale e creativo-espressivo (spirituale). La questione del reddito minimo, come ha evidenziato Erich Fromm, scava su un doppio versante anche all’interno dei fondamenti della moralità e del senso veicolati dalla tradizione ebraico-cristiana, configurandosi anche come possibile soluzione naturale allo scenario contraddittorio cui la meccanizzazione e informatizzazione dei processi produttivi e di capitalizzazione ha condotto. Nell’utopia che contiene, l’idea di una liberazione dalla fatica del lavoro, va a scontrarsi con il destino umano quale è prefigurato dalla tradizione veterotestamentaria, dove la necessità del lavoro, della sofferenza, vengono presentati come contrappunto specifico della realtà più propriamente umana a seguito della caduta nella condizione di peccato conseguente all’atto di disubbidienza originario.[3] Il principio di un diritto alla vita ed al sostentamento si oppone, oltre che agli specifici interessi privati in gioco, anche alla sottesa morale comune che sancisce il rapporto direttamente proporzionale[4] tra prestazione fisica lavorativa e diritto al nutrimento. Rovesciando le valutazioni etiche vigenti, Fromm concepiva in questi termini l’applicazione di una tale misura sociale ed economica: «non soltanto farebbe della libertà una realtà anziché un mero slogan, ma costituirebbe l’attuazione di un principio profondamente radicato nella tradizione religiosa e umanistica dell’Occidente, che suona: l’uomo ha comunque diritto di vivere!».[5]

L’istanza di libertà fatta valere riguardo a tale questione, che sulla scorta dell’analisi marxiana vede nello sfruttamento della forza lavoro il perno paradigmatico del dominio dell’uomo sull’altro uomo, trova la propria ragion d’essere nell’ancorare l’utopia al reale in virtù del progresso della tecnica e del conseguente movimento complessivo scandito da una fine del lavoro.[6] Così, come specificato da Mazzetti, non si può isolare la questione del diritto al reddito da quella di una necessaria, poiché ormai imprescindibile, redistribuzione del lavoro e della ricchezza prodotta. In tale ottica si può tuttavia pensare all’erogazione di un reddito di cittadinanza come primo passo per creare le condizioni effettive per una più ampia e complessiva riorganizzazione del sistema produttivo capace di tenere conto anche del modo nel quale il singolo finisce per prendervi parte. Scriveva in merito Simone Weil: «La tecnica dovrebbe essere di natura tale da mettere perpetuamente in azione la riflessione metodica […] le collettività non dovrebbero mai essere così vaste da oltrepassare la portata di uno spirito umano; la comunanza degli interessi dovrebbe essere abbastanza evidente per cancellare le rivalità […]».[7] Alla necessità di minor mano d’opera viva ai fini della produzione-creazione di sempre maggiori quantità di ricchezza e di beni, fa da contraltare l’aumento dei capitali in mano alle grandi holding; mentre l’ondata privatistica in voga negli ultimi anni in quasi tutti gli ambiti della politica e dell’opinione pubblica, ha finito peraltro per relegare il ruolo dello Stato, in un momento tanto cruciale quanto difficilmente controllabile dello sviluppo sociale ed economico, a fattore minimo di regolazione delle dinamiche economiche e sociali complessive.

Richard Wagner nella metà dell’800 collegava la possibile nascita di una nuova civiltà, ispirata ad un movimento creativo ed artistico nel senso più elevato, alla liberazione dalla preoccupazione per «il puro mantenimento fisico della vita, una preoccupazione che paralizza ogni attività spirituale e consuma il corpo e l’anima»,[8] affermando che quando «l’umanità fraterna»[9] si sarà liberata del tutto da questa incombenza rimandandola alla macchina solo allora i liberi impulsi attivi dell’«uomo libero e creatore»[10] si sarebbero potuti manifestare come impulsi artistici. Lo stesso principio stava alla base della concezione di Aristotele quando asseriva che la più nobile attività di meditazione e pensiero alla quale l’uomo potesse dedicarsi, in simbiosi con il divino, era raggiungibile solo una volta “sciolto” il vincolo che lo lega alla natura secondo le modalità delle strette necessità dettate dai bisogni materiali. Da questo punto di vista la fine “relativa” del lavoro segna in potenza la più alta realizzazione dell’umano già implicita in una escatologia della libertà e della liberazione che pare essere contenuta nel suo stesso produrre, ricercare e conoscere. È tuttavia necessario, secondo la prospettiva di un sensato programma sociale, che alla riduzione del fabbisogno di forza fisica la stessa conoscenza e la tensione produttiva rispondano, come sostiene ai giorni nostri Guy Aznar, mediante una valorizzazione dei beni pubblici, del tempo e dello spazio liberato, ossia mediante una redistribuzione e un diverso investimento della ricchezza, nonché attraverso uno sgravio generale del peso del lavoro per coloro che ancora vi sono impiegati a tempo pieno. Ciò in vista di investimenti che non puntino alla logica del profitto immediato, bensì alla qualità della vita, alla valorizzazione della creatività ed alla costituzione di una vera comunità sociale, qui intese come istanze in grado di connotare una società in senso lato come civiltà nel senso più elevato del termine. Questa determinazione si mostra imprescindibile se non si vuole che la grande conquista permessa dai progressi tecnologici, ampiamente testimoniata dalla crescente e pressoché incontrollata disoccupazione di massa, si traduca in una nuova e paradossale forma di schiavitù che si può già chiaramente percepire, su vasta scala, come un’incontrollabile minaccia.

La Costituzione italiana. «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Così recita l’articolo 1 della Costituzione della Repubblica italiana sancendo come primo principio fondamentale la realtà del lavoro. In termini strettamente consequenziali viene in tal modo stabilito che l’esistenza reale ed effettiva della “cosa pubblica” come bene comune e partecipato da ognuno, nel pieno esercizio democratico delle proprie facoltà, è imprescindibilmente dipendente della partecipazione all’attività produttiva. L’articolo 4, sempre compreso tra i principi fondamentali, aiuta a comprendere il nesso tra questo fondamento ed il modo specifico nel quale il lavoro viene concepito e valorizzato: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società».[11] Al diritto al lavoro corrisponde il dovere di esercitare, secondo scelta e possibilità, un’attività che concorra a promuovere il progresso dell’orizzonte sociale nel quale il singolo è inserito. Se nell’aspetto del diritto, allora, il lavoro sembra esprimere il senso dell’affrancamento dal mero bisogno materiale e fisico, nel suo aspetto maggiormente ingiuntivo, nel dovere che implica, si coglie l’esigenza etica di affermare un superamento dell’egoismo del singolo e dei suoi bisogni in vista di una più vasta collaborazione al progresso e alla crescita della collettività tutta. Al riconoscimento del diritto e allo stabilirsi del dovere, fa da contraltare, inoltre, un passaggio di carattere programmatico-metodologico che sancisce come compito della Repubblica quello di promuovere «le condizioni» che rendano effettivo il suddetto diritto e, di conseguenza, sulla base dell’articolo primo, anche il pieno dispiegarsi e la stessa realizzazione effettiva della forma sociale ricercata e rappresentata.

Lo scenario apertosi con l’incremento della capacità tecnica e robotica, rende la questione delle condizioni della concretizzazione del diritto al lavoro ancor più scottante che in passato. La disoccupazione «cronica»[12] e la povertà conseguente, che in termini costituzionali rappresentano stricto sensu l’inadempimento della forma repubblicana, sembrano invece, destinate ad accrescersi. Ciò spinge a riflettere non solo su un diritto fondamentale non pienamente “adempiuto” ma anche sul ruolo creativo che l’ambito pubblico, inteso come corpo politico e sociale, è adesso chiamato a ricoprire per salvaguardare il suo stesso adempimento e la sua vera realizzazione.

In tal senso la redistribuzione del lavoro appare l’unica soluzione che possa dare realtà al primo diritto fondante, mentre il reddito di cittadinanza, coniugato con adeguate norme fiscali volte ad applicare una maggiore redistribuzione etica del profitti, appare, forse paradossalmente, anche come strategia cui è possibile pensare al fine di favorire le condizioni per la creazione di nuovo lavoro. Questo può avvenire solo come conseguenza di un ripensamento radicale dei valori etici e antropologici implicati dal sistema dei profitti e degli scambi della superata logica dell’economica classica.

Una strategia. In che senso il reddito di cittadinanza può essere concepito come primo passaggio per una equa redistribuzione del lavoro? Le ricerche di Guy Aznar hanno mostrato come l’erogazione di un tale reddito possa rivelarsi strategicamente fondamentale nel programma di redistribuzione qualora venga collocato all’interno di un più vasto programma legislativo ed economico. Se alla scarsità crescente del lavoro fa da contraltare il fatto che a coloro che possiedono un impiego a tempo pieno vengano richieste – spesso nell’ottica della massimizzazione dei profitti – prestazioni sempre più elevate ed intense, una delle strategie che Aznar enuclea riguarda la possibilità di spartire tanto l’orario di lavoro, quanto il reddito di cittadinanza. In quest’ottica, ad esempio, una persona che percepisce un reddito senza prestare la propria opera potrebbe condividerlo per metà con un’altra che, rinunziando ad una piccola porzione del proprio reddito da lavoro, avrebbe “ceduto” la metà del tempo lavorativo (tempo parziale scelto).[13] Al diretto impegno sociale e costruttivo del primo fa da pendant la conquista di tempo libero dalle incombenze meramente produttive del secondo, fatto che tosto si tradurrebbe per l’uno in una valorizzazione del tempo per sé, e per tutte quelle attività nelle quali si completa la dimensione esistenziale materiale e sociale della persona,[14] per l’altro in una concreta partecipazione allo sviluppo sociale. L’introduzione ragionata del reddito di cittadinanza in un contesto nel quale la disoccupazione strutturale si rivela funzionale al voler trasformare un diritto in un’arma di ricatto e sfruttamento, ridurrebbe le asperità di certa violenza e criminalità generate anche dall’indisponibilità economica, favorendo infine un clima di collaborazione sociale maggiormente adatto a formulare nuovi piani di organizzazione economica, educativa e produttiva.

Questo tipo di prospettiva pare avere dalla sua parte, oltre che l’imperativo cogente del primo principio della Costituzione italiana che ovviamente già da solo basterebbe a suffragare ogni argomentazione, il vantaggio di sfatare l’obiezione assistenzialista spesso avanzata a riguardo. Il reddito di cittadinanza, secondo le ricerche alle quali facciamo riferimento, viene pensato soprattutto come viatico per un ripensamento complessivo per il riordino del disequilibrio sociale in vista della piena partecipazione dei cittadini alla vita sociale ed economica, senza creare perciò una nuova spaccatura statica tra coloro che guadagnano esercitando una professione e coloro che vivono “a loro spese”.

Già sulle prime il reddito minimo garantito, e le spese implicate nell’erogarlo, si traducono in nuova ricchezza aumentando il potere d’acquisto di chi si trova per lo più escluso dal processo economico, non potendo accedere ai numerosi consumi ormai basilari, trasformandosi così in investimento per una nuova e immediata creazione di lavoro e di benessere sociale.

I “mondi” esclusi: necessità di una prospettiva sovranazionale. La paventata “fine del lavoro” si mostra nel suo carattere relativo nel momento in cui si prende atto di come rientrino nel campo produttivo molte attività solitamente non considerate in senso stretto economicamente rilevanti, in quanto paiono non rispondere alla logica del profitto e dei consumi (tempo per la famiglia, spazi pubblici, luoghi della cultura e della creatività, etc.). Questo tipo di attività si rifanno ad un’idea di qualità della vita e della crescita che non fa riferimento agli indici statistici relativi ai consumi ed alla ricchezza quantificabile in termini monetari. Il fatto che la necessità del lavoro continui a sussistere si evince anche nel constatare di come gran parte della popolazione mondiale sia ancora esposta a condizioni di “vita” o “non vita” che esigono l’avvio di politiche di aiuto, collaborazione e sostegno che richiedono un grande impiego di capitale umano, risorse, energie e volontà. La logica del reddito minimo, nel suo impiego locale si è spesso scontrata con obiezioni di carattere esistenziale (si veda il dibattito che scaturisce dalle sue applicazioni nei Paesi del nord Europa) per via dell’inattività che promuoverebbe, come anche con polemiche, come quella basata sull’assistenzialismo e la meritocrazia cui abbiamo brevemente fatto riferimento. Questo dato, se coniugato con gli esiti di un’analisi della forma del post-moderno sistema capitalistico, con ogni evidenza chiarisce come la sua applicazione esiga d’essere collocata all’interno di un piano sociale ed economico ispirato a principi realmente umanitari e quindi in grado di guardare al di là dei singoli interessi specifici del momento. Come sottolineava ancora una volta Erich Fromm, le ricerche sul “reddito minimo garantito” devono essere necessariamente affiancate ad altre di «carattere psicologico, filosofico, religioso, pedagogico»,[15] e la sua applicazione va concepita di pari passo con un piano di disarmo[16] e di reinvestimento conseguente al blocco della violenza veicolata anche dalle “normali” strategie di aiuto disposte nei riguardi dei paesi in via di sviluppo. A fronte della divinizzazione del lavoro in quanto tale, una riflessione in grado di ispirarsi ad un’etica della nonviolenza, in tutte le sue forme, diviene centrale nel pensare la reale utilità, a breve e a lungo termine, di questa o quella forma di profitto, produzione e rapporto di scambio. Se sul piano locale pare che una reale strategia di sostegno attuata nei riguardi dei cittadini strutturalmente esclusi dal mondo del lavoro sia destinata a scontrarsi, ad esempio, con le politiche fiscali sovente imposte a giovani e famiglie riguardo all’istruzione ed alla formazione, da una prospettiva più ampia la questione chiama senza alcun dubbio in causa, oggi come ieri, la dinamica ormai globale dell’accentramento delle più vaste quote di ricchezza nelle mani di pochi. Ciò conduce a chiedersi, ancora una volta, quale sia il ruolo che possano o debbano ricoprire in merito lo Stato e la politica nella più vasta accezione del termine.

 

[1] Ad es. G. Mazzetti, Quel pane da spartire. Teoria generale della necessità di redistribuire il lavoro, Bollati Boringhieri, Torino 1997, p. 74 e ss.

[2] Ad es. P. Barcellona, Il capitale come puro spirito. Un fantasma si aggira per il mondo, Editori Riuniti, Roma 1990.

[3] Genesi, 3, 15-19.

[4] E. Fromm, Le implicazioni psicologiche del reddito minimo garantito, in La disobbedienza e altri saggi, trad. it. Di F. Saba Sardi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1981, p. 125.

[5] Ivi, pp. 116-117.

[6] G. Aznar, Lavorare meno per lavorare tutti. Venti proposte, trad. it. di M. Marsili e A. Salsano, Bollati Boringhieri, Torino 1994, pp. 25 e ss.

[7] S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, a c. di G. Gaeta, Adelphi, Milano, 1983, p. 95.

[8] R. Wagner, L’arte e la rivoluzione, Fahrenheit, Roma 2003, p. 66.

[9] Ivi, p. 67.

[10] Ibidem.

[11] http://www.cortecostituzionale.it/documenti/download/pdf/Costituzione_della_Repubblica_italiana_agg2014.pdf.

[12] G. Aznar, Lavorare meno per lavorare tutti, op. cit., p. 153; Cfr. G. Mazzetti, Quel pane da spartire, op. cit., p. 155.

[13] Ad es. G. Aznar, Lavorare meno per lavorare tutti, op. cit., p. 128.

[14] Ivi, p. 171 e ss.

[15] E. Fromm, Le implicazioni psicologiche del reddito minimo garantito, in La disobbedienza e altri saggi, op. cit., p. 127.

[16] Ibidem.