Mancano ancora più di cinque settimane al voto e in troppi sono convinti che No abbia già vinto, sottovalutando clamorosamente i molti talloni d’Achille del fronte del No e il potenziale espansivo della campagna renziana. La partita, invece, è tutta aperta e le prossime settimane saranno decisive non solo per l’esito del referendum costituzionale, ma anche per gli scenari del giorno dopo. E, da questo punto di vista, molto dipenderà dalla capacità o meno di far vivere le ragioni del No fuori dai suoi attuali recinti, unendo la battaglia referendaria alla questione sociale e parlando a quanti e quante oggi si sentono semplicemente estranei a uno scontro percepito come distante dalla vita di tutti i giorni.

Più si avvicina il 4 dicembre, più lo scontro si gioca a colpi di metamessaggi e narrazioni, cioè sul piano più congeniale a Renzi, che infatti non perde occasione per proporre gli abbinamenti nuovo-vecchio, velocità-lentezza, governabilità-ingovernabilità o stabilità-instabilità. Ed è anche il piano dove il No mostra la maggiore debolezza, poiché l’estrema eterogeneità dell’arco di forze in campo non solo non permette di articolare un discorso coerente, ma finisce spesso per evocare narrazioni grottesche o comunque negative, come quando Berlusconi si scaglia contro il pericolo dell’uomo solo al comando o quando si schierano delle platee che sembrano il museo delle cere della Prima Repubblica. Beninteso, è del tutto legittimo e normale che in occasione di consultazioni referendarie si formino schieramenti trasversali, ma il punto è che non basta un semplice assembramento di tutti i nemici di Renzi per vincere nelle urne e tanto meno per delineare una prospettiva per il dopo.

Ed eccoci dunque al cuore del problema. Cioè, perché un disoccupato, precario, lavoratore sottopagato, senza casa, migrante o studente con futuro incerto dovrebbe interessarsi al referendum costituzionale e, soprattutto, perché dovrebbe votare No? Una domanda ovvia, in fondo, ma finora quasi del tutto elusa dalla campagna referendaria. Eppure, ogni analisi delle ragioni e degli obiettivi della riforma costituzionale che non voglia essere monca e sterile, non può certo prescindere da una contestuale analisi del modello sociale che le ha ispirate.

Non è questa, quindi, la sede per approfondire i vari aspetti tecnici della riforma, sebbene consigli vivamente la lettura del testo e dei commenti critici, reperibili per esempio sul sito del Comitato per il No nel referendum costituzionale, anche perché si rimane colpiti dalla formulazione confusa e pasticciata di alcuni articoli rilevanti, come quello dedicato all’elezione dei senatori, che sembrano quasi voler preannunciare delle ulteriori e imminenti modifiche alla Costituzione. Quello che invece ci interessa è evidenziare il senso ultimo delle modifiche costituzionali, cioè l’accentramento del potere decisionale effettivo nel governo, a discapito del Parlamento.

Con la nuova legge elettorale, comprensiva dell’indicazione del candidato Presidente del Consiglio, il partito di maggioranza relativa –o, in via teorica, nemmeno di maggioranza relativa- si garantisce una maggioranza assoluta e fedele di deputati e con la revisione costituzionale questa maggioranza iper-gonfiata garantisce al Presidente del Consiglio non solo la rapida esecuzione dei suoi voleri, ma anche una possibilità senza precedenti di condizionare l’elezione e l’impeachment del Presidente della Repubblica, la composizione della supreme magistrature e persino dello stesso statuto delle opposizioni. Ovviamente, la legge elettorale potrà sempre cambiare, per un motivo o l’altro, ma oggi e qui è questa la legge vigente.

Insomma, quella riforma, da una parte, certifica e formalizza un processo di fatto già consumato nel corso degli ultimi due decenni e, dall’altra, fa un ulteriore passo avanti in direzione di una forma di governo simil presidenziale, incentrata sulla prevalenza del principio della governabilità e sull’emarginazione della rappresentanza e della partecipazione, assumendo dunque come fisiologico l’esclusione de facto dai processi politici e istituzionali di una fetta di società. In parole povere, una forma di governo più autoritaria ed escludente, pienamente funzionale al governo di una società sempre più polarizzata, disuguale ed escludente.

Quello che oggi accade, infatti, non è altro che la maturazione di un processo plasmato da decenni di globalizzazione neoliberista, arretramento dei rapporti di forza sociali e crisi, che ha provocato una rilevante e strutturale crescita della disuguaglianza e che fa sì che oggi in Italia il 20% più ricco detenga il 67,7% della ricchezza nazionale (l’1% più ricco si prende da solo il 23,4%), mentre il 60% più povero si deve accontentare del 14%. E giusto per ribadire il concetto, va ricordato che il 53,7% dell’incremento della ricchezza nazionale in Italia tra il 2000 e il 2015 è stato accaparrato dal 10% più ricco della popolazione. (fonte rapporto Oxfam)

Ovviamente, questi processi di polarizzazione sociale, di impoverimento dei ceti medio-bassi e di arricchimento di quelli dominanti, non sono un’eccezione italiana, ma rappresentano piuttosto lo spirito del nostro tempo (vedi Un’economia per l’1% di Oxfam) e questo spiega anche perché le “riforme” renziane, dal Jobs Act a quelle costituzionali, siano condivise, anzi sollecitate e richieste, da banche d’affari, capitalisti finanziari e non, governi, burocrati europei, istituzioni monetarie internazionali e circoli di potere vari.

Appunto, un modello sociale escludente, che destruttura i diritti sociali e il welfare conquistati nei decenni seguenti alla seconda guerra mondiale, e che dunque necessita una forma di governo più spiccia. Dallo Stato sociale allo Stato penale, aveva detto qualcuno.

E tutto questo dovrebbe far capire anche perché quelle riforme, al di là delle demagogie renziane, non possono essere nell’interesse di quanti e quante continuano a pagare il conto della crisi e della gestione della cosa pubblica ad esclusivo vantaggio di pochi. La vittoria del Sì, infatti, non solo porterebbe alla costituzionalizzazione di una forma di governo più autoritaria ed escludente, ma significherebbe anche una legittimazione di tutte le politiche governative di questi anni, comprese la Buona Scuola e lo Jobs Act, e di conseguenza una loro stabilizzazione.

Ecco perché c’è bisogno di un No sociale. Non solo per una questione di numeri in vista del 4 dicembre, appunto, ma anche e soprattutto per rimettere al centro del dibattito pubblico le persone e i soggetti sociali che le politiche dominanti, di ieri e di oggi, vorrebbero escluse a tempo indeterminato.

Mancano poche settimane ormai e molto è ancora da fare. Settimana scorsa c’è stato lo sciopero dei sindacati di base e il corteo a Roma per il No Renzi Day. Sono state le prime iniziative fatte esplicitamente nel nome del No Sociale, mentre altre mobilitazioni di movimento sul piano nazionale sono già in programma, come la contestazione della Leopolda il 5 novembre a Firenze e la manifestazione nazionale il 27 novembre a Roma. Ma non può certo bastare, perché non si tratta soltanto di fare alcune mobilitazioni, bensì di diffondere una consapevolezza, un’attitudine che deve accompagnare tutte le iniziative da oggi fino al 4 dicembre.