Martedì 12 luglio Bernie Sanders ha espresso il suo appoggio formale a Hillary Clinton come candidata a presidente del Partito Democratico durante un raduno congiunto a Portsmouth, nel New Hampshire.

Si conclude così una battaglia durata mesi, che ha portato il quasi sconosciuto senatore del Vermont a vincere primarie e caucuses in 22 stati e a raccogliere 13 milioni di voti, riaccendendo una scintilla che sembrava spenta, secondo le parole di una sua sostenitrice e portando al centro del dibattito una questione fondamentale, ma finora ad allora ignorata: lo strapotere della finanza e la sua influenza sulla politica. Ma cosa ne sarà adesso dell’entusiasmo, della speranza e dell’attivismo che ha sostenuto una campagna autofinanziata con milioni di piccole donazioni e ha coinvolto centinaia di migliaia di volontari? E come reagiranno i suoi sostenitori all’abbraccio, per quanto forzato, con Hillary Clinton, definita per mesi la “rappresentante di Wall Street” e ora sostenuta come la candidata migliore per battere Tramp?

In un comunicato stampa diffuso domenica Sanders ha elogiato l’adozione del “programma più progressista nella storia del Partito Democratico”, in realtà frutto di un acceso dibattito e di accanite contrattazioni tra i delegati dei due candidati. E’ vero, Hillary Clinton ha dovuto fare alcune concessioni “di sinistra” al suo avversario, forte di milioni di voti, soprattutto giovanili, che lei non avrebbe mai saputo conquistare. Il programma sostiene infatti il salario minimo a 15 dollari, la riduzione dei debiti studenteschi e l’università gratuita per le famiglie della classe media e operaia, si schiera contro la pena di morte, “punta” all’assistenza sanitaria universale e a decisi provvedimenti contro il cambiamento climatico, ma non mette al bando il fracking e non prende una posizione abbastanza decisa contro il TTIP, sebbene molti democratici siano contrari al trattato.

C’è soprattutto un tema che brilla per la sua assenza tra i punti del programma che verrà presentato tra un paio di settimane alla Convenzione democratica di Filadelfia ed è sempre rimasto marginale anche durante i momenti più accesi della campagna per le primarie: quello delle enormi spese militari degli Stati Uniti e degli interventi armati che tanti disastri hanno provocato nel mondo. A differenza di Jeremy Corbyn, a cui è stato spesso accostato per le appassionate battaglie contro le disuguaglianze sociali, Sanders non ha posto il disarmo (soprattutto nucleare) e l’opposizione alla guerra al centro delle sue proposte. Non è certo un guerrafondaio dichiarato come Hillary Clinton, ma questa “dimenticanza”, già rilevata in un articolo di cinque mesi, scritto all’inizio della straordinaria avventura delle primarie americane, è sempre stata un preoccupante punto debole.

Bernie Sanders ha più volte ripetuto che le elezioni vanno e vengono, mentre le rivoluzioni politiche e sociali come quella messa in moto dal movimento creatosi intorno alla sua candidatura non si fermano e vanno costruite “dal basso verso l’alto”. E’ questo tra l’altro il senso dell’appello lanciato a metà giugno a presentarsi candidati a tutti i livelli, da quello locale al Congresso, appello raccolto con prontezza da migliaia di persone.

Ed è forse questa la nuova sfida che va lanciata perché l’ondata di speranza e attivismo non finisca nella delusione e nello scoraggiamento: lo sviluppo di un ampio movimento di base, con o senza un leader riconosciuto come Sanders, capace di creare un’alternativa dal basso, di farla crescere fino ai massimi livelli politici e di costruire “un futuro in cui credere”, lo slogan che ha accompagnato tutta la campagna per le primarie.