Libro di Brunetto Salvarani

Recensione di Laura Tussi

Edizioni Claudiana – EMI

“Non penso di essere eretico se considero De André il mio Quinto Evangelo”

Don Andrea Gallo

Il celebre prete di strada Don Andrea Gallo, concittadino e carissimo amico di Fabrizio De André, si è spinto a dichiarare che Faber, soprannome del cantautore, è stato come un evangelista, portatore di una profonda coscienza e capace di rendere tutti consapevoli della propria energia vitale, umana, rivoluzionaria.

Il cantautore e poeta Fabrizio De André è considerato il Bob Dylan italiano, per la straordinaria capacità di spaziare con audacia e lirismo su temi eterni e universali, tra cui quello religioso, senza per questo essere ingabbiato nell’alveo di una confessione religiosa e nemmeno definito predicatore o eletto ad ateo devoto ante litteram. Don Andrea Gallo, dopo il concilio Vaticano II, arriva a dire a Fabrizio De André, con ammirazione dichiarata: “ Tu sei tra i giovani Teologi della Liberazione”…

Il volume di Brunetto Salvarani si pone l’obiettivo di individuare a più riprese le tracce bibliche che affiorano nella produzione deandreiana, soffermandosi sinteticamente sulla vita corsara e anarchica di Faber e sui suoi temi sociali, attraverso una ricostruzione biografica sapientemente amalgamata e intrecciata con scelte artistiche ben precise, ossia controcorrente, “in direzione ostinata e contraria”. Di seguito, il libro pone e propone attente riflessioni sulle canzoni maggiormente impregnate di domande sulla religione e sulla Scrittura.

L’ultimo capitolo si concentra sull’episodio discografico più rilevante del poeta genovese, a proposito di tema religioso, il long playng La Buona Novella del 1970, un’autentica pietra d’angolo o miliare, che dir si voglia, non solo sul piano musicale, ma anche su quello del costume del nostro paese e della società.

L’autore Brunetto Salvarani, in una delle tante note bibliografiche, ringrazia per i consigli e l’incoraggiamento l’amico Odoardo Semellini, detto Odo, compagno di innumerevoli scorribande sui sentieri della musica pop, deandreiano raffinato e di lungo corso.

La personalità artistica di Fabrizio De André si sposa bene con l’ispirazione che gli deriva dal cantautore francese prediletto Georges Brassens, per l’influenza di quel dichiarato e anarchico individualismo libertario.  Faber avvicina le storie musicate di Brassens alle vicende dei carrugi genovesi, fra prostitute, gente di malavita e emarginati di ogni sorta. Brassens per De André era “un modello nitido, rappresentava il superamento dei valori piccolo-borghesi”. Così il poeta genovese, nonostante le ottime possibilità finanziarie, intreccia le personali esperienze esistenziali e storie di vita con un’esplorazione sempre più intensa dei vicoli di Genova e della vita grama degli ultimi, degli emarginati, dei diversi, dei quali ammirava soprattutto la solidarietà corporativa e la profonda umanità.

L’album La Buona Novella del 1970 è un felice antidoto al clima religioso e subculturale attuale del nostro paese e alla voga dell’ateismo devoto, ossia di coloro che si dichiarano solo pubblicamente cattolici e genericamente cristiani, ma che poi, nella morale privata, adottano ben altri stili di comportamento. Il contesto culturale dell’album La Buona Novella si collega con la stagione della contestazione. In quel periodo il rapporto tra la Chiesa cattolica romana e le istanze dell’epoca moderna stava giungendo a un punto di svolta cruciale: si era da poco concluso il Concilio Vaticano II, in cui la Chiesa manifestava il tentativo di venire a patti con la modernità e con i problemi sociali.

Il 1970, anno di uscita del disco, è quello successivo alla strage di Piazza Fontana, all’omicidio Pinelli, con le grandi manifestazioni studentesche, i sit-in dei movimenti pacifisti e la crescente avversione per la guerra in Vietnam. Un periodo dominato dalla cosiddetta “strategia della tensione”, con una lunga serie di attentati terroristici e una progressiva dismissione di quegli alti ideali di trasformazione politica del paese che avevano contrassegnato gli anni Sessanta.

La Buona Novella è un’allegoria oltre ogni canone, anacronistica, ma non separata dalla storia, fuori sincrono rispetto alle proposte più impegnate e militanti e troppo riflessiva e intellettuale per gli amanti delle canzonette sanremesi. Questo album si trova a incrociare un bisogno di spiritualità che le chiese cristiane ufficiali faticano a intercettare. Un disco anacronistico perché, anche se composto nel clima sessantottino e nel pieno della contestazione e rivolta studentesca, parlava degli insegnamenti di Gesù: abolizione delle classi sociali, fine dell’autoritarismo, creazione di un sistema egualitario.

Il brano “Il Testamento di Tito” fu composto sul declinare degli anni Sessanta, quando nel nostro paese non si argomentava ancora di pluralismo religioso. Dunque non è forzato ammettere che Fabrizio De André si è rivelato addirittura profetico, perché ha colto in netto anticipo quella dimensione di pluralizzazione di riferimenti religiosi, che in seguito è diventata uno dei tratti caratteristici della nostra società, come per esempio il fenomeno migratorio che coinvolge attualmente gli scenari urbani italiani.

Ormai giunti all’ennesimo anniversario della scomparsa, la figura di Fabrizio De André continua a suscitare un’innumerevole e felice fioritura di iniziative, tanto da far pensare che il cantautore genovese sia riuscito a intercettare e a compensare un immenso vuoto di senso e a colmare un innato bisogno di poesia e una profonda e umana necessità di legami sociali, solidali, comunitari. Necessità derivata da una crisi non solo economica e politica, ma anche strutturale, dalla perdita di senso e significato di valori autentici e non piccolo-borghesi e benpensanti.

Articolo pubblicato su A-Rivista Anarchica n. 407, maggio 2016.

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