Tutti noi nasciamo in circostanze diverse, con codici genetici unici, in un ambiente determinato nel momento specifico in cui inizia la nostra percezione del mondo e il modo in cui ci hanno posto lì. Ne deriva che la comprensione di ciò che ci circonda è qualcosa di diverso per ognuno di noi e ciò segnerà la prospettiva delle cose. Tuttavia, per quanto possa sembrare assurdo, la storia ci ha insegnato come tali differenze di base siano obbligate a fondersi o perdersi in un’organizzazione sociale le cui norme, usi e costumi ci vengono imposti in modo rotondo e definitivo.

Per questa ragione, il fatto apparentemente semplice di aprire la mente per capire in ogni dimensione la complessità del pensiero altrui, i suoi conflitti, le sue aspirazioni e i suoi timori, si erge come un compito per il quale non siamo preparati. Da tale incapacità vitale deriva una serie di patologie sociali in grado di segnare profondamente ogni nostra relazione umana: l’odio, il risentimento, l’intolleranza, il pregiudizio, il razzismo e la discriminazione.

Desiderare la morte di qualcuno – e perpetrare il gesto di privarlo della vita – è una della manifestazioni estreme di questo modo di vedere il mondo come un monolite, collocato in una verità unidimensionale e chiusa, quale è la nostra. É come colui che vede soltanto un albero ignorando la presenza del bosco: un modo molto pratico ma molto pericoloso di incanalare in un solo elemento tutta la forza della negazione.

Nella rigidità di un sistema sociale basato sul predominio della forza e del potere di pochi si conforma la piattaforma sulla quale si ergono le religioni, le ideologie e l’organizzazione geografica all’interno delle società, il denominatore comune di tutti i tempi. Le differenze nel pensiero e negli obiettivi- fattore in grado di generare conflitti di grande portata, perché capaci di creare nuove rotte e offrire altre opzioni- diventa immediatamente un obiettivo da eliminare con qualsiasi mezzo, al fine di mantenere uno status stabile.

Da lì nasce inevitabilmente una relazione di violenza generalmente basata non soltanto su un’attitudine verso l’intolleranza ma – cosa persino più grave – nell’assoluta mancanza di rispetto nei confronti dell’altro, dei suoi diritti e delle sue decisioni. All’interno di una società la cui complessità invita alla polarizzazione, ciò è estremamente difficile da affrontare, ma questo quadro diventa un polverone allorquando i fattori di divisionismo e discriminazione nascono dai medesimi ambiti del potere politico, la cui missione è precisamente quella di cercare e preservare l’unità e la concordia tra i cittadini.

Il rispetto verso l’altro è uno dei gesti personali più difficili da attuare. La tendenza alla violenza razziale, fisica o psicologica si è impressa dentro di noi sin dalla prima infanzia, mediante stereotipi profondamente radicati nella vita quotidiana. Crediamo nella nostra verità come se realmente fosse la sola, senza lasciare spazio al dialogo né a un gesto di recettività un po’ più generoso verso quella verità altrui.

In questo scenario in cui la parte superficiale di una crisi – ciò che appare, senza lasciare spazio alla ricerca delle cause che la originano – diventa politica e il rimedio si applica mediante la forza, gli obiettivi primari come la stabilità, il ripristino del tessuto sociale, la riduzione delle disuguaglianze e il rispetto dei diritti umani, sono concetti assolutamente fuori discussione.

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Traduzione dallo spagnolo di Cristina Quattrone