Il 15 febbraio 2003 trenta milioni di persone in 800 città del mondo manifestarono contro l’imminente (e poi realizzata) invasione americana dell’Iraq, nella più grande protesta globale della storia. Poche settimane dopo Baghdad era sotto le bombe, ma secondo il nuovo documentario “We Are Many”, del regista inglese di origini iraniane Amir Amirani, candidato all’Oscar nella categoria di miglior documentario, quell’apparente fallimento ha cambiato per sempre il mondo.

In un’intervista esclusiva a Democracy now!, Amirani ripercorre con Amy Goodman e Juan Gonzalez i momenti più salienti del film, a partire dal discorso di Harry Belafonte alla manifestazione di New York il 15 febbraio. E prima ancora, il 23 gennaio a Washington, un Jeremy Corbyn più giovane ma combattivo come oggi parla davanti a mezzo milione di persone invocando la giustizia sociale come unico modo di realizzare un mondo di pace. Che contrasto vedere dopo di lui uno spezzone in cui Tony Blair ammette che aver abbattuto Saddam Hussein ha contribuito alla creazione dell’ISIS! Una dichiarazione che il regista bolla senza mezzi termini come “tardiva, insincera e orchestrata”.

Rispetto alle conseguenze a lungo termine di quella storica giornata, Amirani cita una scoperta fatta proprio girando il documentario: dopo una prima manifestazione di poche centinaia di attivisti, il primo giorno della guerra in Iraq l’occupazione di piazza Tahrir al Cairo da parte  di 50.000 persone segna la nascita del movimento democratico che anni dopo porterà alla cacciata di Mubarak. E da lì si metterà in moto il movimento di Occupy in tante parti del mondo…

Un’altra conseguenza di quel 15 febbraio secondo Amirani riguarda lo storico voto dell’agosto 2013, in cui per la prima volta in 231 anni il Parlamento britannico rifiuta di scendere in guerra: la proposta di bombardare la Siria avanzata dal governo Cameron viene respinta e uno studio commissionato dall’esterrefatto Ministero della Difesa ammette il ruolo fondamentale svolto dal movimento contro la guerra nell’influenzare in questo senso l’opinione pubblica. Valutazione confermata da John Perscott, ex vice primo ministro di Blair, che durante la preparazione del film non aveva neanche risposto a una richiesta di intervista. Dopo averlo visto, si mette in contatto con uno dei produttori, accetta di comparire nel documentario, dichiara di essere rimasto colpito dalla dimensione globale della protesta (possibile che non lo sapesse?) e soprattutto ammette l’influenza del movimento pacifista sulla decisione riguardo alla Siria. Un’ulteriore conferma, secondo Amirani, dell’importanza di valutare un movimento come quello che attraversò il mondo il 15 febbraio 2003 non in base ai suoi effetti immediati, ma tenendo conto del suo impatto su eventi molto successivi. Dunque, conclude, bisogna continuare a resistere e a protestare contro le guerre.

L’ultima domanda di Amy Goodman riguarda il titolo del documentario. Il regista rivela di averlo tratto da un verso di una poesia di Percy Shelley, La maschera dell’anarchia: “Levatevi come leoni dopo il torpore in numero invincibile. Fate cadere le vostre catene a terra come rugiada scesa nel sonno su di voi. Voi siete molti, loro sono pochi”. Con un piccolo, ma significativo cambiamento: da “voi siete molti” a “noi siamo molti”.