Scheda a cura di Alfonso Navarra del Coordinamento della Campagna per l’Obiezione alle Spese Militari

Nel momento in cui si vanno considerando le statistiche “quantitative” sulle spese militari, in Italia, in Europa, nel mondo, vanno poste alcune premesse “situazionali” utili alla comprensione del loro significato “qualitativo”, se l’approccio adottato non vuole essere superficiale, miope, acritico.

Le fonti di partenza dei dati sono, naturalmente, i ministeri, gli enti governativi ed intergovernativi, o organismi internazionali come la NATO e l’ONU con varie agenzie specifiche.

Vi sono poi istituti, think thank, centri di ricerca, etc, che lavorano su quei dati, li scremano e li verificano criticamente, li comparano, li mettono in correlazione, li elaborano.

Vi sono due principali “annuari” internazionali cui tutti gli addetti ai lavori fanno riferimento:

  • il SIPRI YEARBOOK che si può reperire sul sito dell’International Peace Research Institute di Stoccolma (sipri.org)
  • il MILITARY BALANCE dell’IISS, International Institute of Strategic Studies di Londra (https://www.iiss.org/).

 

Una prima premessa la possiamo porre subito: l’intervento militare possiamo considerarlo una cura ex post – il più delle volte sbagliata oltre che dolorosa – a problemi che hanno cause ex ante nella ingiustizia, nella sfiducia, nella paura: è stato calcolato che si spende 1 euro per la prevenzione dei conflitti armati contro almeno 10.000 euri per fare le guerre (vedi Alberto L’Abate, “L’arte della pace”, Centro Gandhi edizioni, 2014).

Sarebbe meglio lavorare sulle cause che non impegnarsi sugli effetti con soluzioni draconiane e violente, che spesso gettano ulteriore benzina sul fuoco dei conflitti.

 

Se ci riflettiamo bene, la causa principale della crisi migratoria, per la parte che sta ora allarmando l’Europa, è nel caos e nella destabilizzazione che gli Stati Uniti e gli stessi governi europei hanno contribuito a provocare in Libia, Siria, Iraq, Afghanistan, Yemen e Somalia proprio con i loro interventi militari.

Perché dimenticare che la Libia è implosa dopo il 2011 proprio per l’intervento iniziato dalla Francia e dalla Gran Bretagna, che hanno poi trascinato dietro di sé la NATO su mandato dell’ONU?

Lo stesso possiamo dire della Siria: dopo la campagna militare condotta dagli Stati Uniti e dai loro alleati sunniti per rovesciare il regime baathista si è creato il subbuglio da cui è nato l’ISIS e si è arrivati alla cifra di 10-12 milioni di persone (per ora) tra sfollati interni e rifugiati all’estero.

 

La prevenzione dei conflitti armati è importante e – stimolato dalle prese di posizione in questo senso degli stessi segretari generali dell’ONU Boutros-Ghali e Kofi Annan – uno studio dell’OECD nel 2009 ha messo in rilievo che essa sicuramente costa meno di una risposta “tardiva” ai conflitti violenti e alla fragilità degli Stati (si vada su: www.operationspaix.net).

Nel lavoro di prevenzione dei conflitti militari va stabilita la distinzione, fatta negli studi di medicina, tra prevenzione primaria, secondaria e terziaria: la primaria – il peacebuilding – è quella determinante, perché cerca di eliminare le cause di fondo che provocano i conflitti armati. La secondaria – il peacekeeping – si occupa del conflitto allo stato incipiente, mentre la terziaria – il peacemaking – è quella che si applica alla “convalescenza”, dando stabilità allo stato di pace con l’evitare il ritorno della violenza. Possiamo considerare l’intervento armato in un conflitto, anche quello teoricamente e praticamente più giusto, come un fallimento della prevenzione.

La prevenzione nonviolenta dei conflitti si concretizza, nella utile schematizzazione fatta da Alberto L’Abate, in sette tipi di azione: 1) la segnalazione precoce e l’intervento rapido; 2) le missioni per l’accertamento dei fatti; 3) la diplomazia preventiva anche con un ruolo attivo delle organizzazioni di base; 4) le ambasciate di pace; 5) la costituzione di corpi civili di pace; 6) la negoziazione e la mediazione dei conflitti armati; 7) la riconciliazione dopo i conflitti armati.

 

Quanto sopra prospettato rimanda all’idea che possa esistere una difesa senza armi, una difesa sociale, popolare, nonviolenta, attingibile in modo completo dopo una fase di “transarmo”, come quella che propugnano gli obiettori alle spese militari e le associazioni che promuovono la loro Campagna, attiva fin dal 1982.

Tale difesa, a ben vedere, sarebbe anzi quella più coerente con l’attuazione dell’art. 11 della Costituzione italiana, anche se la sua prima interpretazione starebbe nell’adozione di un modello di “difesa difensiva”.

Una difesa quindi non integrata nell’ombrello nucleare NATO, che non si armi con le portaerei e gli F-35 per gli interventi a lungo raggio “fuori area”, ma che badi solo a rispondere alle eventuali aggressioni entro il territorio nazionale, decentralizzata e democratizzata, probabilmente ci costerebbe subito la metà.

Potremmo liberare tante risorse con cui si combatterebbero, se bene impiegate, le più pressanti minacce alla vita odierna degli italiani: disoccupazione, povertà, mafie, degrado ecologico. Ed allo stesso tempo, con più soldi a disposizione, potremmo governare in modo razionale e lungimirante anche gli effetti immediati di quella che i media chiamano “emergenza migranti”.

 

Andiamo ora ad esporre sinteticamente le cifre sui bilanci militari, facendo riferimento alle elaborazioni del SIPRI di Stoccolma.

Per quanto riguarda la spesa militare italiana è opportuno fare comunque riferimento ad un documento ufficiale: il Documento programmatico pluriennale della Difesa per il 2015-2017, che si può rinvenire alla URL: http://www.difesa.it/Approfondimenti/Bilancino2010/Documents/DPP%202015-2017.pdf

Un altro documento che occorre consultare è il Libro Bianco della Difesa: http://www.difesa.it/Primo_Piano/Pagine/20150429Libro_Bianco.aspx

 

La spesa militare italiana, secondo il SIPRI, ammonta nel 2014 a 29,2 miliardi di dollari, che va oltre il budget ufficiale (18,2 miliardi di euro) perché vi si aggiungono altre voci extra ministero della difesa, che gravano sul Ministero dello sviluppo economico per la costruzione di navi da guerra, cacciabombardieri e altri sistemi d’arma e, per le missioni militari all’estero, in capo al del Ministero dell’economia e delle finanze.

L’Italia è al 12° posto mondiale come spesa militare ma non raggiunge l’obiettivo NATO del 2% del PIL (dovrebbe spendere almeno 30 miliardi di euro).

I dati del SIPRI non coincidono con quelli del nostro Ministero della Difesa.

La Ministro Pinotti si lamenta nel DPP 2015-2017 che “tra il 2010 e il 2017, la Difesa ha visto diminuire le consistenze iniziali delBilancio dei settori Investimento ed Esercizio, di complessivi 1.858,9 M€”.

Sempre nel DPP leggiamo: “Lo stanziamento complessivo per il 2015 ammonta a 19.371,2 M€ che, rispetto al bilancio approvato dal Parlamento per il 2014, sostanzia un decremento di -941,1 M€, con una variazione pari a -4,6%. Gli stanziamenti complessivi per il 2016 e il 2017 ammontano, rispettivamente, a 18.861,3 M€ e 18.847,4 M€. Con riferimento al PIL nominale per il 2015, lo stanziamento complessivo per la Difesa registra un rapporto percentuale dell’1,179%”.

 

Una cifra realistica su quanto andiamo a spendere effettivamente nel 2015 a scopo militare potrebbe essere 23 miliardi di euro circa: i 19,4 ufficiali più i 2 degli investimenti in sistemi d’arma, più gli 1,4 per le missioni all’estero.

 

Vi sono alcune distorsioni nella struttura di spesa che fanno delle FF.AA italiane una specie di “esercito della Via Paal”: nel romanzo per ragazzi di Ferenc Molnar la banda dei monelli di Budapest aveva tutti graduati ed un solo soldato semplice, il poveretto sempre sotto punizione che muore di polmonite per recuperare la bandiera. Così abbiamo 95mila graduati per 83mila militari di truppa e ben 476 tra generali e ammiragli. Gli Stati Uniti hanno, per fare un paragone, 900 generali per un milione e mezzo di militari!

Altri problemi sono individuati da una elencazione dell’ex Ammiraglio Falco Accame: “1) la pletorica struttura territoriale, in parte necessaria per giustificare l’esistenza di Comandi per la struttura di vertice (una struttura territoriale che risale ancora a quando era necessario inviare un messaggero a cavallo da Roma alla periferia per portare una notizia); 2) affidare l’attività di parata a pattuglie di acrobazia aerea costituite da piloti civili e quindi non incidenti sui bilanci della Difesa, mentre oggi un intero aeroporto (Rivolto), con centinaia di persone, oltre ai piloti degli aerei, gravano sulle spese del bilancio militare; 3) sospendere (almeno per qualche anno (mettendo in naftalina) l’attività della portaerei da 26 mila tonnellate, un “lusso militare” che l’Italia di questi tempi, non può permettersi; 4) una drastica riduzione delle nostre “Forze di proiezione”, con un ridimensionamento sostanziale di contingenti all’estero mantenuti più per questioni di rappresentanza che di esigenze operative”.

 

Torniamo al rapporto del SIPRI. Di gran lunga la superpotenza anche in termini quantitativi sono gli Stati Uniti, con una spesa ufficiale nel 2014 di 610 miliardi di dollari. (Nota necessaria: il fatto che gli USA siano la potenza egemone a livello mondiale non significa che vanno concepiti come l’unico attore agente confinando tutti gli altri nel ruolo di semplici re-agenti. I conflitti non sono creati, programmati e gestiti nell’unico laboratorio della CIA: alcuni, ad esempio quello tra sunniti e sciiti in Medio Oriente, risalgono a ben prima che Colombo “scoprisse” l’America!).

Se si sta ai soli bilanci dei ministeri della difesa, la spesa militare dei 28 paesi della NATO ammonta, secondo una sua statistica ufficiale relativa al 2013, ad oltre 1.000 miliardi di dollari annui, il che significa il 56% della spesa militare mondiale.

In realtà la spesa NATO è superiore, soprattutto perché al bilancio del Pentagono vanno aggiunte spese militari contabilizzate su altri ministeri.

Manlio Dinucci, sul Manifesto del 14 aprile 2015, così calcola: dobbiamo sommare ai 610 miliardi la spesa per le armi nucleari (12 miliardi di dollari annui), iscritta nel bilancio del Dipartimento dell’energia; quella per gli aiuti militari ed economici ad alleati strategici (47 miliardi annui), iscritta nei bilanci del Dipartimento di Stato e della USAID; quella per i militari a riposo (164 miliardi annui), iscritta nel bilancio del Dipartimento degli affari dei veterani. Vi è da mettere in conto anche la spesa dei servizi segreti, la cui cifra ufficiale (45 miliardi annui) sarebbe solo ciò che emerge.

La spesa militare reale degli Stati Uniti, per Dinucci, salirebbe quindi a circa 900 miliardi di dollari annui, che farebbero un quarto dell’intero bilancio statale: supererebbe la metà di quella mondiale, che secondo il SIPRI ammonta complessivamente a 1.776 miliardi di dollari!

Nella statistica del SIPRI, dopo gli Stati uniti vengono la Cina, con una spesa stimata in 216 miliardi di dollari (circa un terzo di quella ufficiale Usa), e la Russia con 85 miliardi (circa un settimo di quella Usa). Seguono l’Arabia Saudita, la Francia, la Gran Bretagna, l’India, la Germania, il Giappone, la Corea del sud, il Brasile, l’Italia, l’Australia, gli Emirati Arabi Uniti, la Turchia.

La spesa complessiva di questi 15 paesi ammonta, nella stima del SIPRI, all’80% di quella mondiale.

La statistica evidenzia il tentativo di Russia e Cina di accorciare le distanze con gli USA: nel 2013–14 le loro spese militari sono aumentate rispettivamente dell’8,1% e del 9,7%. Aumentate ancora di più quelle di altri paesi, tra cui: Polonia (13% in un anno), Paraguay (13%), Arabia Saudita (17%), Afghanistan (20%), Ucraina (23%), Repubblica del Congo (88%).

Ogni minuto si spendono nel mondo con scopi militari 3,4 milioni di dollari, 204 milioni ogni ora, 4,9 miliardi al giorno.

Le elaborazioni del SIPRI attestano che la spesa militare mondiale (calcolata al netto dell’inflazione per confrontarla a distanza di tempo) è risalita a un livello superiore a quello dell’ultimo periodo della guerra fredda: la corsa alla guerra è ripresa ed essa uccide non solo perché porta a un crescente uso delle armi, ma perché brucia risorse vitali necessarie alla lotta per la sopravvivenza degli esseri umani e dell’umanità.

Una sopravvivenza che è in bilico anche e soprattutto perché i conflitti militari oggi come oggi possono costituire elemento di drammatizzazione e di innesco per quella follia che ha nome di “deterrenza nucleare”.

Non solo il grande incidente nucleare, in ambito civile, è sempre dietro l’angolo, intendendo, ad esempio, il guasto al reattore che può fondere il nocciolo o l’incendio al deposito di scorie (in proposito possiamo tirare in ballo la catastrofe annunciata di Saluggia a rischio alluvione); in ambito militare, è duro da ammettere, ma è riconosciuto internazionalmente a livello ufficiale, la guerra nucleare tra potenze grandi e meno grandi può scoppiare, specie quando la tensione internazionale è complicata ed acuta, in ogni momento, persino per caso o per errore! I governanti ne sono pienamente informati, tanto è vero che invitano Erich Schlosser, l’autore del pregevole e documentatissimo “Comando e Controllo” (edizione italiana, Mondadori, 2015), a svolgere relazioni ufficiali nelle sedi ONU sulla affidabilità molto relativa dei sistemi di gestione degli apparati nucleari. Le circa 2000 testate, su un totale di oltre 16.000, in perenne stato di allerta sono la rappresentazione più evidente di una spada di Damocle che pende su 7 miliardi di esseri umani rendendoli ostaggio del folle gioco della deterrenza (“minaccio –implicitamente – l’uso per evitare l’uso”). La situazione del confronto “atomico”, se proprio dobbiamo semplificarla, non è quella, tutto sommato di stallo, di due personaggi ostili che si fronteggiano e si tengono a bada con le pistole spianate e puntate l’un contro l’altro con il colpo in canna e senza la sicura. E’ molto peggio: dobbiamo pensare a un numero di dinamitardi al chiuso dentro una polveriera (attualmente nove incendiari ufficiali) con i candelotti accesi che si gridano l’un l’altro: “Spegni prima tu la miccia!”. E’ evidente che è solo questione di tempo e prima o poi un candelotto esploderà e si finirà per saltare tutti per aria!

La “battaglia” politico-culturale (ci si scusi l’uso della terminologia militare, ma anche Gandhi si riferiva alla nonviolenza come all’”equivalente morale della guerra), di vitale importanza e di prepotente urgenza allo stesso tempo e modo, allora, è quella della denuclearizzazione, sia civile che militare.

La società civile che si è ritrovata come “base” di attivisti a Vienna il 6 e 7 dicembre del 2014, a ridosso del vertice ufficiale degli Stati l’8 e il 9 dicembre, fa capo a molti network internazionali (ad esempio alla WILPF) ed in Italia è collegata all’appello postumo “ESIGETE! il disarmo nucleare totale” di Albert Jacquard e Stéphane Hessel, il partigiano di “Indignatevi”!

L’appello è stato pubblicato dalla EDIESSE nel marzo 2014 ed è diventato una iniziativa politica di pressione sul governo italiano (“impegnati per il bando delle armi nucleari!”) con la petizione telematica che si trova alla URL: http://www.petizioni24.com/esigiamo; ma anche una sollecitazione al Segretario Generale dell’ONU: http://www.petizioni24.com/dirittoaldisarmonucleare.