Il Fondo Monetario Internazionale ha sentenziato che l’Italia avrà bisogno di 20 anni per tornare ai livelli occupazionali pre-crisi. Ma ci sta prendendo in giro perché sa bene che di lavoro questo sistema non ne creerà più. Semplicemente perché non è il suo obiettivo, non è la sua missione come piace dire a chi vive l’economia come una religione.
La missione di questo sistema è garantire profitto alle imprese e ai suoi azionisti. Quanto al lavoro è solo un costo da contenere e poco importa se dietro al così detto mercato del lavoro ci sono persone in carne e ossa, con una dignità, una vita, dei diritti da salvaguardare. Per il mondo degli affari il lavoro è solo una merce, è del tempo da comprare al prezzo più basso possibile. E poiché la legge di mercato sancisce che il prezzo scende quando c’è più offerta che domanda , per fare scendere il prezzo del lavoro bisogna creare più offerenti lavoro di quanto siano i posti disponibili. Il capitalismo può essere raccontato come la storia di un sistema che si è organizzato per creare disoccupazione e assicurarsi costantemente lavoro a buon mercato. Fra le strategie utilizzate, c’è prima stata l’estromissione dei contadini dalle terre comuni, poi la sostituzione degli umani con le macchine, infine la globalizzazione. Strategie in continuo cambiamento per ottenere un numero crescente di persone in sovrappiù che tengano basso il prezzo del lavoro. Un progetto definito da Papa Francesco come l“economia dello scarto”, e se fino a ieri gli scartati eravamo abituati a vederli nel Sud del mondo, oggi li troviamo sempre più nelle nostre case, a giudicare dalla crescita dei poveri e dei disoccupati.
Fosse onesto, il sistema ci racconterebbe apertamente che l’esclusione fa parte della sua natura. Invece tenta di farci credere che lui, poverino, vorrebbe tanto dare un lavoro a tutti, ma per riuscirci ha bisogno di crescita, perché che volete, il lavoro lo creano le aziende e le aziende assumono solo se vendono di più. Peccato che ogni volta che si creano nuove opportunità di lavoro le aziende preferiscano le macchine alle persone e al tempo della globalizzazione, oltre ad assistere alla guerra fra lavoratori da un capo all’altro del pianeta, si assiste anche alla guerra dei robot contro gli umani. Lo stanno sperimentando anche cinesi da che hanno osato alzare la testa per chiedere migliori condizioni di lavoro.

Ma la bugia più grave rispetto alla crescita è che ormai non è più compatibile con lo stato comatoso raggiunto dal pianeta. E mentre geologi, agronomi, climatologi ci informano che le risorse si stanno riducendo al lumicino e che i rifiuti ci stanno sommergendo facendo cambiare equilibri millenari come il clima, succede che industriali, politici, sindacalisti ed economisti, tutti insieme acclamino la crescita come l’unica via per tirarci fuori dai guai. E noi ci crediamo. Presi da quell’impellente bisogno di lavoro, anche noi corriamo dietro alla leggenda, finendo per sdoppiare la nostra personalità: pro sobrietà in nome dell’ambiente, pro crescita in nome del lavoro.

Prima o poi scopriremo che la schizofrenia non ci porta lontano e che la sobrietà è l’unica strada per garantirci un futuro. Ma la buona notizia è che sobrietà non è sinonimo di vita di stenti né di disoccupazione dilagante. Al contrario è occasione di libertà, sovranità e inclusione. L’importante è convincerci che il lavoro è un falso problema. Nella storia dell’umanità, l’obiettivo non è mai stato il lavoro. L’obiettivo è stato vivere bene nel senso di avere di che mangiare, vestirsi, viaggiare, istruirsi, curarsi. Solo noi, figli del mercato, abbiamo trasformato il lavoro in idolo e non perché siamo impazziti, ma perché viviamo in un sistema che ci offre l’acquisto come unica via per soddisfare i nostri bisogni e ci offre il lavoro salariato come unica via per accedere al denaro utile agli acquisti. Per questo il lavoro è diventato una questione di vita o di morte e in suo nome siamo tutti diventati partigiani della crescita. L’unico modo per uscirne è smettere di concentrarci sul lavoro e concentrarci sulle sicurezze. La domanda giusta da porci non è come creare lavoro, ma come garantire a tutti la possibilità di vivere dignitosamente utilizzando meno risorse possibile, producendo meno rifiuti possibile e lavorando il meno possibile. La strada è ridurre la dipendenza dal lavoro salariato, in modo da interrompe la schiavitù dalla crescita delle vendite. In altre parole l’alternativa è l’autoproduzione in ambito individuale, per i piccoli bisogni personali e familiari, e in ambito collettivo per i beni e servizi fondamentali che richiedono strutture produttive organizzate.

Quando ciò che ci serve lo potremo ottenere senza denaro grazie al lavoro non retribuito nostro e degli altri, in quel momento il lavoro smetterà di essere un costo e si trasformerà in ricchezza. In quel momento non ci sarà più interesse ad escludere, ma a ottenere la collaborazione di tutti. E se dovesse risultare che siamo troppi, potremo sempre dare una bella sforbiciata all’orario di lavoro con somma soddisfazione di tutti perché con meno lavoro potremo avere lo stesso livello di sicurezze.

Capito che l’inclusione passa attraverso il ridimensionamento del mercato e il rafforzamento della solidarietà collettiva, la prima cosa da fare è arrestare la demolizione di ciò che ci è rimasto di pubblico. Basta con la politica delle privatizzazioni. Basta con il taglio alle spese sociali. Basta con una politica di bilancio che dà priorità al servizio del debito. Sì, invece, a una seria lotta all’evasione e ai paradisi fiscali. Sì a una tassazione progressiva dei redditi e in particolare delle rendite finanziarie. Sì a una ristrutturazione del debito. Sì a una sovranità monetaria al servizio dell’occupazione in ambito pubblico. C’è bisogno di politica nuova, ma potremo trovarla solo se saremo capaci di gettare il pensiero oltre il muro del sistema imperante.