Mai viste reazioni peggiori da parte delle cancellerie occidentali alla decisione greca di indire un referendum popolare per l’accettazione o meno della proposta ultimativa dei creditori internazionali, quella la cui imposizione da parte, soprattutto, del Fondo Monetario, ha determinato la rottura del negoziato con la Grecia e la precipitazione della crisi. Il Presidente della Commissione Europea, Jean Claude Juncker, ha accusato il governo greco di “populismo”, arrivando a dichiarare perfino di sentirsi “tradito” dal comportamento del premier Alexis Tsipras. Il Presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, ha lanciato un vero e proprio atto d’accusa contro Tsipras e Syriza, arrivando finanche a contraddire quello che appena tre giorni prima aveva solennemente dichiarato, vale a dire che le porte del negoziato “sono ancora aperte”. Il Presidente del Parlamento Europeo, Martin Schulz, aveva già, a suo tempo, con buon anticipo, definite “stupide” le proposte avanzate dal governo greco; infine, perfino il “piccolo premier” italiano, Matteo Renzi, ha dato man forte alla più recente e vasta controinformazione, avvelenando i pozzi con una dichiarazione palesemente falsa: che il referendum greco sarebbe un referendum “euro contro dracma”. È appena il caso di ricordare che, tra tutte queste vestali del neoliberismo e dell’austerità che ha già distrutto l’economia e impoverito la società greca, gli ultimi tre sono tra i più autorevoli esponenti della socialdemocrazia europea: oggi come – e più – di ieri, vera e propria ancella dei poteri forti, custode dell’ordine neoliberale, tutore delle classi dirigenti europee, fautrici di questa autentica tragedia. 

Allo stesso modo, in maniera del tutto simmetrica e contraria, mai sentita replica più azzeccata a questo vero e proprio assedio dei poteri forti contro la Grecia, il suo governo e il suo popolo: «Buffo – ha spiegato Yanis Varoufakis, ministro greco delle finanze – quanto suoni radicale il concetto che sia il popolo a decidere». Centra il punto della questione aperta tra i creditori e le agenzie finanziarie internazionali e uno stato sovrano, la Grecia, in merito al contenuto e alla gittata della trattativa fatta fallire dal Fondo Monetario e dai creditori: non una questione di numeri, economica, ma una questione di sostanza, politica. Come si vede dal confronto tra l’ultima proposta avanzata dal governo greco e la contro-proposta presentata dalle istituzioni internazionali, infatti, vi era il margine per una negoziazione sui “valori assoluti”: gli obiettivi di avanzo primario (surplus) erano stati fissati rispettivamente all’1%, al 2% e al 3% per gli anni fiscali 2015, 2016 e 2017; le soglie di tassazione sul valore aggiunto (IVA) erano state fissate al 6%, al 13% e al 23%, sebbene non si fosse raggiunto l’accordo sulle tipologie di servizi da collocare nelle rispettive fasce; l’innalzamento dell’età di pensione a 67 anni a partire dal 2022 e il contenimento dei prepensionamenti, su cui la trattativa verteva sulla tempistica della riformulazione; l’incremento dei contributi sanitari, l’innalzamento della tassa sulle imprese di fatturato maggiore, l’estensione della tassa sui beni di lusso, in una forma di patrimoniale rivista, la riduzione delle spese per la difesa.

È stato soprattutto il Fondo Monetario a determinare la rottura delle trattative: imponendo che la riforma del welfare venisse supervisionata dalle autorità internazionali, in primo luogo dalla Banca Mondiale (quando il superamento del regime di supervisione da parte della Trojka era posta sin dall’inizio come condizione della trattativa); imponendo una cosiddetta “modernizzazione della griglia salariale nel pubblico impiego” (che è semplicemente un modo raffinato per intendere il taglio degli stipendi e, in prospettiva, delle pensioni, nel pubblico impiego, vale a dire una delle linee rosse poste dai negoziatori greci “a monte” della trattativa); rifiutando (mai successo in precedenti analoghe trattative) tutte le proposte complementari avanzate da parte greca per il conseguimento degli obiettivi di bilancio e (perfino contro i “suggerimenti interessati” provenienti dagli Stati Uniti e da alcuni esponenti della Commissione Europea) qualsiasi ipotesi di ristrutturazione del debito greco. Nero su bianco: download.repubblica.it/pdf/2015/economia/proposta-ue-grecia.pdf.

È chiaro che la traiettoria negoziale seguita dal Fondo Monetario e dai suoi più fedeli alleati (i vertici dell’Eurogruppo, della Bundesbank, del governo CDU-SPD della Germania) non intendeva portare ad un accordo, che presuppone una mediazione, bensì ad una resa dei conti tra due visioni opposte della direzione politica ed economica: pur di non darla vinta al primo governo di sinistra, progressista e anti-austerity, dentro l’Unione Europea, hanno scelto di rompere il negoziato, precipitare la crisi, isolare un Paese membro. Il Fondo Monetario e l’Unione Europea hanno finalmente fatto cadere la loro maschera, di agenti politici e, perfino, ideologici del “sistema”, piuttosto che “istituzioni condivise”. Nella loro propaganda raccontano di panico ai bancomat di Atene (che non c’è mai stato) e nascondono le manifestazioni popolari di massa a sostegno dell’OXI al referendum (con decine di migliaia di persone di fronte al Parlamento di Atene).

La storia greca, patria della democrazia europea e ispiratrice di grandi momenti di coscienza e autodeterminazione, è segnata dal NO: ogni anno si festeggiano le Giornate del NO (OXI, in greco) in ricordo della grande opposizione del popolo greco all’ultimatum di guerra, inizio della resistenza greca contro l’invasione nazi-fascista (28 ottobre 1940). Il fascismo aveva promesso di “spezzare le reni” ad Atene; il suo “μεγάλο Oχι”, il “grande NO” segnò l’inizio di una resistenza che avrebbe consegnato al fascismo una sconfitta bruciante. Il 29 giugno, in Piazza Syntagma, ad Atene, si sono raccolte 20 mila persone; lo stesso Alexis Tsipras, la sera stessa, ha spiegato che la vittoria del NO riguarda lo svolgimento della trattativa e il piano dei creditori, non, evidentemente, l’uscita della Grecia dalla Unione Europea. È chiaro che la vittoria del NO rappresenterebbe la prima manifestazione esplicita, popolare e democratica, di opposizione all’ordine neo-liberista imposto dall’Unione Europea e dalle autorità internazionali. Sarebbe, per la prima volta in Europa, una sconfitta “sul campo” per il neoliberismo e una spinta propulsiva a rivedere l’attuale costruzione dell’Unione Europea stessa.

Un “grande NO”, come 75 anni fa, per fare la storia.