Centinaia di ”kayaktivisti” sono diretti a Seattle, nello stato nord-occidentale di Washington, dal 16 al 18, per bloccare la Polar Pionneer, l’enorme piattaforma di Shell già arrivato in vista del porto, quella stessa piattaforma sulla quale sei attivisti di Greenpeace avevano già installato un accampamento, lo scorso aprile, mentre si stava dirigendo verso la città.

Seattle dovrebbe servire da base a Shell per le sue nuove trivellazioni nell’Artico. La società prevede di perforare fino a sei pozzi offshore nel mare dei Cukci, che si estende a nord dello stretto di Bering tra Alaska e Russia.

 
                                                          Mappa del mare dei Cukci

Ed Murray, il sindaco di Seattle, aveva dichiarato il 4 maggio, che le enormi piattaforme e le navi logistiche di Shell che devono ormeggiare nel porto per la manutenzione delle trivellazioni non rientrano nel quadro degli attuali permessi, e il consiglio comunale di Seattle ha votato all’unanimità una risoluzione che chiede alle autorità portuali di rivedere il contratto di concessione con Shell. Il consiglio di amministrazione del porto di Seattle, pur chiedendo alla municipalità di riconsiderare la propria posizione, ha tuttavia ordinato a Shell di ritardare l’arrivo delle piattaforme e chiesto una revisione legale dei piani di trivellazione.

Ma Shell rimane impassibile di fronte alle proteste e alle questioni normative e si comporta come se nulla fosse… rischiando così di vedersi comminare ammende.

Sprezzando il rischio climatico, Obama ha dato il via libera

Nel luglio 2012 la Discoverer-Noble, una piattaforma off-shore di Shell il cui ancoraggio si era staccato, aveva rischiato di arenarsi sulla costa della città di Unalaska, prima di essere finalmente rimorchiata. Un’ispezione della guardia costiera aveva rilevato guasti nella propulsione della nave e nei sistemi di sicurezza.

Successivamente, un altro impianto di trivellazione, il Kulluk, si era arenato a fine dicembre sulla spiaggia di un’isola disabitata dell’Alaska quando i cavi di ormeggio dei due rimorchiatori che dovevano portarlo a Seattle per manutenzione si erano spezzati nel corso di una tempesta.

 
                                                Piattaforma Polar Pioneer a Los Angeles

La regione ha già vissuto una delle maggiori maree nere della storia quando, nel 1989, l’affondamento della petroliera statunitense Exxon Valdez sversò circa 40 milioni di litri di greggio nel mare, inquinando 1.300 chilometri di costa.

“Se Shell sfrutta il petrolio dell’Artico, c’è il 75% di probabilità che si verifichi un incidente e il 100% di possibili impatti negativi sul clima”: questo il messaggio inviato dagli attivisti a Obama, pubblicato a fine aprile su una grande pagina pubblicitaria di USA Today, uno dei maggiori quotidiani americani.

Ma giovedì 14 maggio 2015, il Presidente Obama, sprezzante del rischio climatico, ha difeso la propria decisione di autorizzare le trivellazioni di Shell nell’Artico, dimenticando evidentemente anche la dichiarazione del Segretario di stato per gli affari interni dell’epoca, Ken Salazar, che aveva espresso la propria “inquietudine” di fronte a questa “serie di incidenti” e ordinato un’indagine di sessanta giorni sulle politiche di perforazione di Shell, accanto alle indagini della guardia costiera. Due dei suoi ex consiglieri, Carol Browner e John Podesta, avevano a loro volta lanciato un appello per la cessazione definitiva delle perforazioni nell’Oceano Artico.

Il Bureau of Oceanic Energy Management (BOEM) ha dichiarato, lunedì 11 maggio, che l’autorizzazione era subordinata al rispetto da parte di Shell di una nuova serie di vincoli concernenti la sicurezza delle trivellazioni e il rispetto delle leggi federali a protezione dei mammiferi marini e delle specie in via di estinzione.

Obama ha affermato che Shell “è stata costretta a rivedere i propri documenti e ripensare il progetto” prima che il governo conceda i permessi, e che queste trivellazioni non sono che una ”transizione durante la quale la produzione statunitense di petrolio e gas naturale continuerà”.

Nel 2008, una relazione del US Geological Survey aveva rilanciato il gioco, stimando che nell’Artico fosse presente il 13% delle riserve di petrolio mondiale ancora da scoprire (circa 15 miliardi di barili) e il 30% di quelle di gas. I permessi di esplorazione offshore hanno proliferato, persino in zone difficili. La società norvegese Statoil sfrutta già il giacimento di gas Snøhvit nel mare di Barents. Exxon Mobil (nel mare di Kara), ENI e Statoil si sono alleati alla società russa Rosneft. La Groenlandia offre la zona costiera occidentale, dopo quella orientale. Shell ha già speso sei miliardi di dollari per lo sfruttamento di nuovi giacimenti di petrolio e gas nel mare dei Cukci, in uno degli ambienti marini più pericolosi al mondo.

Tutte le compagnie petrolifere hanno un occhio, o persino un piede, nell’Artico. E Obama aveva probabilmente in mente l’ammontare dei loro contributi ai membri del Congresso (327 milioni di dollari) e alla propria campagna (sempre meno che a Romney, però), anche se la Shell è una società Anglo-Olandese, perché impedire a Shell di trivellare creerebbe un allarmante precedente.

Uno degli ultimi paradisi ecologici

I mari artici dell’Alaska sono un santuario non solo per decine di migliaia di balene, ma anche per centinaia di migliaia di trichechi e foche, milioni di uccelli, migliaia di orsi polari, un centinaio di altre specie, innumerevoli pesci, per non parlare di tutta quella vita sottomarina invisibile fatta di fitoplancton, stelle marine, cetrioli di mare, ricci di mare in tutte le loro varietà. L’Oceano Artico è uno degli ultimi paradisi ecologici marini rimasti sulla terra. Ma anche questo, evidentemente, Obama l’ha dimenticato.

Il contratto di Shell con il porto le permette di trivellare nel mare dei Cukci fino al 2020. Inoltre, avrà bisogno di ulteriori autorizzazioni da parte dei vari organismi federali e provinciali per trivellare nell’Artico e per evacuare le acque reflue. Gli attivisti, da parte loro, sono fermamente intenzionati a tenere la società sott’occhio: “Più Shell viene monitorata e più sarà evidente come sia suscettibile di non soddisfare i requisiti stabiliti nel piano di esplorazione o nei permessi per lavorare nell’Artico», sostiene Travis Nichols, di Greenpeace USA.

Ecco perché la società, prevedendo “numerosi e imprevisti ritardi”, ha fin d’ora chiesto al governo federale di estendere i permessi di esplorazione di vari anni.

Fonti utilizzate per questo articolo:
Seattle Times
Democracy Now
Price of oil
Il sito degli avversari di Shell
La petizione di Greenpeace

Da leggere anche: La pression pétrolière s’accroit sur l’Arctique, fragilisé par le changement climatique

Fonte: Elisabeth Schneiter per Reporterre

Foto: Greenpeace    e Geolinks

Traduzione dal francese di Giuseppina Vecchia per Pressenza