Con Une planète trop peuplée ? Le mythe populationniste, l’immigration et la crise écologique, Ian Angus e Simon Butler confutano la corrente di pensiero che postula la “bomba demografica” come responsabile della crisi ecologico-ambientale. Un libro forte e ben argomentato che vuole mostrare come gli squilibri climatici non derivino da una popolazione troppo numerosa ma dal sistema capitalista.

Entro il 2050 la popolazione mondiale dovrebbe superare i 9 miliardi di persone. Si troverebbe quindi ad essere triplicata nell’arco di un secolo. Se le previsioni delle Nazioni Unite sono accurate, dovrebbe stabilizzarsi verso il 2100. Per quanto, nulla può essere garantito a lungo termine visto che la demografia spesso smentisce gli specialisti.

C’è una connessione tra la forte crescita della popolazione mondiale cui assistiamo e il degrado dell’ambiente, o per riferirsi a un tema di attualità, le alterazioni climatiche? In altre parole, ”le persone sono il problema”? Il libro di Ian Angus e Simon Butler, pubblicato nel 2011 negli Stati Uniti con il titolo Too many people, e da poco tradotto in francese per il Canada, ruota intorno a questa domanda.

La “bomba demografica”.

Che la ”bomba demografica” sia responsabile della crisi ecologica è un’antifona antica, comunemente diffusa persino in alcuni circoli ambientalisti. Essa poggia, senza ammetterlo apertamente, su una rappresentazione dell’essere umano come nocivo per l’ambiente. Ridurre il numero degli esseri umani sarebbe quindi il modo migliore per attenuare i danni inflitti alla terra.

Uno scienziato rinomato come il britannico James Lovelock (padre della Teoria di Gaia) costituisce un esempio grottesco di questa corrente di pensiero. Stando a questa teoria, “sarebbe saggio optare per una popolazione stabilizzata di circa mezzo miliardo di individui”. Egli preconizzava persino di trasformare in “rifugi sicuri per un’umanità civilizzata” quelle aree terrestri” meno suscettibili di subire gli effetti deleteri dei cambiamenti climatici”.

Ian Angus e Simon Butler si sono impegnati a confutare gli argomenti di una corrente populazionista molto influente nei paesi anglosassoni. Lo fanno in modo onesto e rigoroso, senza ridicolizzare le idee dei loro opponenti, ma cercando di dimostrarne, cifre alla mano, errori e preconcetti.

Non si tratta di negare, scrivono, che tale crescita demografica ponga ”il benché minimo problema sociale, economico o ecologico”. Né che l’espansione incontrollata delle città non possa continuare: quasi quaranta città superano oggi i 10 milioni di abitanti!

Là dove i populazionisti sbagliano, aggiungono i due autori, è nell’addebitare solamente alla demografia la causa degli squilibri ambientali: ”Tutti gli argomenti populazionisti sviluppati [da Malthus in poi] si basano sull’idea che il nostro numero determina il nostro destino, che la demografia fissa il nostro destino. Fame, povertà e distruzione dell’ambiente sono presentati come leggi naturali”.

Tuttavia le statistiche sono illusorie e fuorvianti. Forniscono cifre ma non descrivono una realtà sempre più complessa. Come dice una ex responsabile dell’UNESCO, Lourdes Arizpe, citata nell’opera: “Il concetto di popolazione in quanto numero di corpi umani presenta ben poco interesse per capire il futuro della società nel contesto globale. Ciò che fanno questi corpi, quello che prendono dall’ambiente e quello che gli rendono, il loro utilizzo della terra, degli alberi e dell’acqua (…), queste sono le cose di importanza cruciale”.

Non puntiamo l’avversario sbagliato

In tale ottica i due autori denunciano giudizi affrettati, idee preconcette che contribuiscono a nascondere la verità. Così, scrivono, è di moda castigare il consumatore americano che “consuma 10 volte più di un cinese medio e 30 volte più dell’indiano medio, 5 volte più del messicano medio,” per poi giungere alla conclusione che “non si salverà il mondo se non si riesce a convincere gli “americani medi” a ridurre significativamente il proprio consumo, a mangiare di meno, usare meno l’auto, spendere meno”.

Pensare così, sottolineano Ian Angus e Simon Butler, è sbagliare avversario: “Il consumo individuale non è una delle principali cause di distruzione ambientale (per cui) un cambiamento nel comportamento degli individui non comporterà, nel migliore dei casi, che una differenza minima”. In altre parole, spegnere la luce in una stanza quando si esce, o lasciare l’auto nel garage è di ben poco interesse.

Una tale conclusione rischia di far rabbrividire molti ambientalisti. Ma gli autori si sono messi al sicuro affidandosi a dati numerici raramente proposti: le emissioni di gas serra in base al settore direttamente emittente e non all’utente o all’attività finali. E questo cambia tutto.

La maggior parte delle emissioni di gas serra è dovuta al settore dell’industria e a quello del commercio, non al consumatore che così si ritrova in parte discolpato. Inoltre, ricordano i due, ci sono americani e americani, c’è chi vive nell’opulenza e consuma ad oltranza e chi lotta per mettere insieme pranzo e cena. ”llÈ difficile sostenere l’idea che le persone spendono all’eccesso quando si osserva l’evoluzione del reddito della maggioranza degli americani (…) ” da 40 anni (…) In dollari costanti, il reddito medio di quel 90 per cento che rappresenta la parte meno ricca della popolazione è crollato del 4.5% tra il 1970 e il 2002”.

Si indovina facilmente dove vogliano condurci alla fine gli autori: all’idea che gli squilibri climatici, come tutti gli altri mali legati all’ambiente, è il prodotto del sistema capitalista, solo e soltanto. Quello che serve per uscirne è risalire all’origine, cambiare sistema economico, gettare a mare il capitalismo e optare per l’“ecosocialismo”.

E concludono: “L’ostacolo principale nella transizione verso una società ecologica non è una carenza tecnologica o finanziaria, né tanto meno una popolazione troppo numerosa. Le pastoie sono politiche ed economiche: governi e grande industria bloccano il passaggio all’azione. (…) La ricerca incessante del guadagno immediato, senza minimamente preoccuparsi delle conseguenze a lungo termine, fa parte del funzionamento stesso del sistema”.

Cosa che non è certo rassicurante in vista del futuro.

Une planète trop peuplée ? Le mythe populationniste, l’immigration et la crise écologique, de Ian Angus et Simon Butler, Prefazione di Serge Mongeau, Ed écososiété

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Traduzione dal francese di Giuseppina Vecchia per Pressenza