Il semestre di presidenza italiana del Consiglio dell’Unione Europea, appena concluso, era stato salutato dai media come foriero di speranze e opportunità per il nostro paese. In realtà, come era ampiamente preventivabile da una lucida analisi, non ha prodotto alcun risultato.

Le istituzioni europee non lasciano alcuna possibilità ai singoli stati di incidere significativamente e di scegliere l’indirizzo politico. Quelle nazionali, invece, sono sempre più prigioniere di poteri non soggetti ad alcun tipo di controllo democratico.

Questa situazione si è manifestata con particolare evidenza in Italia, da quando la fine del governo Berlusconi e l’inizio del governo “tecnico” di Mario Monti hanno segnato l’avvicendamento tra un regime liberal-democratico, almeno nella forma istituzionale, e una dittatura economica. Berlusconi, qualunque giudizio se ne voglia dare, è stato l’ultimo capo di governo italiano espressione del voto popolare. È stato l’ultimo caso in cui gli elettori hanno potuto scegliere i propri rappresentanti indipendentemente dagli interessi delle lobby transnazionali e della Troika.

Il colpo di stato finanziario che ha portato alla nomina di Mario Monti ha segnato, di fatto, la fine della storia repubblicana della Penisola. D’ora in poi, le istituzioni politiche saranno svuotate di qualsiasi significato e sottoposte al controllo di quelle economiche mondiali. I nuovi capi di governo, da Letta in poi, sapranno che per governare quel che conta non è tanto l’appoggio del parlamento e del popolo (che al massimo bisogna preoccuparsi di blandire) ma della Troika, della Cancelleria tedesca, dell’alta finanza, della Commissione Europea, dei cosiddetti “mercati”. Si è trattato di un passaggio cruciale, sfuggito ai cronisti concentrati sulle minuzie della legge elettorale, come anche agli osservatori e agli studiosi di politica, avvinti da un sonno profondo, dediti a speculazioni di nessuna reale importanza.

Quello che è avvenuto, e che si leggerà sui libri di storia del domani, può essere assimilabile in un qualche modo al passaggio dalla Grecia democratica a quella filippica e alessandrina, o dalla Roma repubblicana a quella imperiale: l’estinzione, o lo svuotamento (come fu per il Senato romano) delle istituzioni rappresentative; il passaggio da un sistema rappresentativo a uno autocratico. Con la differenza che, oggi, non si sostituisce un potere politico con un altro potere politico, a mutare non è soltanto la forma in cui è amministrato lo stato.

Vi è una mutazione antropologica, in cui i gruppi di interesse economici si sostituiscono del tutto a quelli politici. Certo, è innegabile che gli interessi materiali abbiano influenza da sempre sulla sostanza degli atti politici di qualsiasi governo; ma in passato hanno sempre avuto bisogno della mediazione di qualche figura politica e di un apparato burocratico. Il quale è diventato man mano così indispensabile da riuscire a reclamare una certa indipendenza e ad imporsi, almeno in qualche misura, sui forti interessi dei grandi attori economici.

Quello cui assistiamo negli ultimi anni, invece, è l’esautorazione delle forme politiche da parte di quelle economiche. Istituzioni politiche vengono soppiantate da istituzioni economiche, o quantomeno vengono poste sotto il controllo diretto di potentissime lobby. Il gergo politico, di conseguenza, è cambiato, si è adeguato. Non si parla più di deludere gli elettori, ma di “scontentare i mercati”. Le leggi e i decreti avanzano non sulla base delle promesse contenute nei programmi elettorali, ma del “Ce lo chiede l’Europa”, dove per “Europa” si intende la regolazione dei bilanci degli stati da parte di trattati sovranazionali che sfuggono del tutto al controllo dei cittadini europei e dei loro rappresentati nazionali.

Non è più il volere popolare o il voto del parlamento a stabilire la durata del governo, ma degli indici economici adeguatamente manipolati dagli economisti, considerati indipendentemente dal reale benessere nazionale, ma solo in funzione delle necessità dei “mercati” e delle direttive europee, quasi che adeguarsi ad essi sia un valore in sé.

Ma da tutti gli indici, ovviamente, si esclude quello che esprime il valore della disoccupazione reale, ovvero il più “democratico”. Berlusconi è stato il primo politico ad applicare le tecniche della comunicazione pubblicitaria e del marketing alla politica, ma la sua amministrazione ha avuto il torto di essere ancora improntata al vecchio modo di gestione della cosa pubblica, ovvero quello di chi deve soddisfare, per lo meno in parte, o anche solo dare la sensazione di farlo, le richieste popolari. I governi Monti e Letta hanno fatto un passo in avanti, su questo piano; hanno compreso che conta molto di più eseguire gli ordini della Troika e coltivare le relazioni diplomatiche con i soggetti internazionali che muovono i fili.

L’“innovazione” di Renzi, sempre che di innovazione si possa parlare, è stata quella di unire il linguaggio spiccio della pubblicistica e delle tecniche del marketing alla esecuzione rigorosa dei dettati di Bruxelles. Ovvero da un lato rassicurare le lobby internazionali sulla messa a punto di leggi che rispecchino nel modo più puro i loro interessi, dall’altro rappresentare agli occhi delle masse questa esecuzione come risultato di un attivismo di governo che si opporrebbe alle “caste” politiche nazionali nullafacenti.

Punto di volta della comunicazione renziana è il verbo (in particolare il verbo “fare”). Nel suo gergo il predicato è assoluto, coniugato all’infinito e non legato a nessun complemento. Il linguaggio viene spogliato e ridotto ad una crudezza scarna, in un contrasto stridente con i virtuosismi lessicali dell’odiato “politichese”. Ma l’essenzialità del linguaggio renziano cela una astuzia mefistofelica. L’assenza di estensioni del verbo e di specificazioni del sostantivo priva il messaggio di qualsiasi concretezza, consegnandolo a una fumosa e ambigua allusività emozionale, che impatta sul pubblico a livello pulsionale. Proprio mentre si rappresenta come diretto e essenziale, lontano da inutili giri di parole, esso in realtà mistifica e confonde, e lo fa in virtù della su stessa struttura.

Nel nuovo modo di comunicare viene azzerato l’oggetto del discorso e il verbo da solo esprime tutta la finalità del messaggio. Esso non è più una particella del discorso, ma uno stimolo uditivo per suscitare reazione emotiva e associazioni libere nella testa del destinatario. “Fare”, “Costruire”, o, concessione al livore popolare, “rottamare”, non importa cosa o chi, come o perché. L’oggetto della politica non è dato sapere. Esso viene deciso in una sala convegni esclusiva, o in uffici di oscuri burocrati oltre i confini nazionali.

Quel che conta, questo il vero referente della comunicazione renziana, non è più il soggetto dell’azione, ma l’azione stessa. Non importa da chi e in quale forma essa sia pianificata, ma soltanto che si realizzi. Il linguaggio di Renzi si adatta, quindi, perfettamente al nuovo corso: ovvero quello che accetta la politica come semplice continuazione con altri mezzi dell’offensiva contro i popoli e contro i lavoratori delle élite capitaliste.