La politica è la determinazione razionale di un’organizzazione della società. Perché avvenga questa determinazione è necessario delimitare un territorio. La polis, è innanzitutto un territorio, un’area geografica ben delimitata. Si tratta dunque di stabilire dei confini: questi confini devono essere visibili, tangibili e accettati da tutti, perché il territorio è innanzitutto qualcosa di fisico. I confini delimitano lo spazio in cui le leggi sono in vigore e riconosciute; al di fuori di questo spazio esse non hanno alcun valore. In altre parole, la politica comincia laddove stabilisce i limiti, prima di tutto i propri. I confini sono la segnatura di questi limiti, cum-finis in latino, quindi sanzione della fine, del termine. Ma la politica non stabilisce soltanto i propri limiti, ma quelli di tutti coloro che sono soggetti ad essa. Vengono decisi i confini di tutta la comunità, ma anche della proprietà di ciascun membro, dei diritti sulle cose e sulle persone di ogni individuo, i beni comuni, di cui tutti i membri della comunità possono fruire, cioè i limiti al possesso privato e i limiti di questa fruizione e così via.

Nelle epoche passate questo concetto era ben chiaro. Per Thomas Hobbes ciascun individuo cede il diritto di autogovernarsi a un sovrano (quindi accetta di essere limitato) a condizione che anche gli altri membri della comunità facciano lo stesso (Leviatano). Questa è l’unica condizione che assicuri la pace e impedisca uno stato di guerra generalizzato proprio della primitività senza limiti.

David Hume concepiva invece il processo auto ed etero-limitante come una convenzione. Ogni uomo accetta di riconoscere l’altrui proprietà, dunque di veder limitata la propria, per poter ricevere lo stesso trattamento dagli altri (Trattato sulla natura umana). Ma Hume era ben cosciente che una simile convenzione può non essere sufficiente e che quindi esiga l’intervento di un governo che preservi la giustizia (da jus, diritto, da cui deriva jugum, giogo e jubere, obbligare a fare).

La coscienza del limite è la caratteristica di tutti i trattati di politica pre-moderni ed era insita nell’antropologia della società. Infrangere i limiti, significava peccare di hybris ed essere punti duramente dagli dei, da Dio o dalla Legge.

Deve essere chiaro che il limite è primariamente qualcosa di fisico. Con questo nome i Romani indicavano la pietra che tracciava i confini. Le mura della città la proteggevano da invasioni esterne e consentivano una certa armonia e un certo equilibrio all’interno.

Le cose – la materia plasmata dal lavoro umano – costituiscono il limite della società; esso è determinato nello spazio e nel tempo dalla loro consumabilità, cioè dal deterioramento provocato dal loro uso. È proprio questa consumabilità che dà valore alle cose. Se esse non fossero consumabili, cioè non usabili o non deteriorabili, non avrebbero valore. Perché o non sarebbero mezzi, e quindi non rientrerebbero nell’universo sociale, oppure non sarebbero soggette a deperimento e perciò potrebbero essere fruite illimitatamente e quindi usabili da chiunque. Poiché, invece, le cose sono consumabili (e proprio ciò le rende cose) esse hanno un valore, anzi costituiscono il valore stesso, in quanto la soddisfazione dei bisogni passa per la loro fruizione.

Senza le cose non esisterebbe alcun limite, dunque non esisterebbe alcuna politica. Ma non esisterebbe neanche l’Uomo, perché sarebbe soltanto una belva senza alcuno scopo. L’Uomo è uomo per la stessa ragione per cui è politico, come aveva già compreso Aristotele.

Le cose costituiscono il limite della società umana, ma anche ciò che le consente di costituirsi.

La politica, dunque, comincia e finisce con le cose, perciò anche la società e l’individuo cominciano e finiscono con esse. Questi ultimi hanno ambito a emanciparsi dalla politica quando il valore è stato trasferito dalle cose alle merci. Marx aveva compreso perfettamente che le merci non coincidono con le cose. Sono, piuttosto, dei rapporti sociali.

Una cosa trae il suo valore da sé stessa, o, per meglio dire, dal lavoro che l’ha prodotta e dall’uso che ne fa l’Uomo. In sostanza, sono i bisogni umani sociali a determinare questo tipo di valore.

Con l’affermazione della merce il valore si distacca dalla cosa. Esso non è più dato dal lavoro e dall’uso, ma dalla scambiabilità. Ad essere scambiabili però, non sono le cose, le quali differiscono qualitativamente, ma le merci portatrici di valori astratti.

La filosofia cartesiana aveva distino la res cogitans dalla res extensa. La cosa non è più cosa, perché il suo statuto ontologico non è dato dal suo essere al mondo, percettibile e fruibile, ma dal suo essere pensabile. La cosa pensata è dotata di caratteristiche geometriche e matematiche, quindi è misurabile, cioè, detto altrimenti, scambiabile. Ma in questo modo essa non è più cosa, ma idea. Le cose, anzi, sono escluse in quanto differenti da idee chiare e distinte. Le idee delle cose sono invece quantificabili, paragonabili. E perciò commerciabili: sono merci.

La cosa è soltanto il sostrato materiale che permette la ritualità dello scambio, non l’oggetto dello scambio. Ad essere scambiati sono soltanto valori astratti, misurati dall’unità universale del denaro.

Ma se il valore non è più assegnato dalle cose, ma dalle merci, questo valore non è più limitato, perché non esiste più una struttura fisica che ne segni i confini. La cosa, limitata e limitante, viene sostituita dalla merce universalmente scambiabile.

In quanto valore astratto, la merce non contempla limiti. Il profitto capitalistico rigetta qualsiasi limite perché tende all’accumulo di valore astratto illimitato. Si arriva al punto che la cosa viene del tutto abolita e lo scambio è un commercio immateriale di valori, denaro in cambio di denaro senza passare per nessun sostrato materiale.

La materia, la cosa, la dimensione fisica è il limite dell’umana esistenza. La politica cerca di razionalizzare gli scopi, rendendoli compatibili con i limiti fisici. Abolendo la cosa, il capitalismo abolisce i limite e con esso la politica; l’economia non sopporta più alcuna giurisdizione, perché la sua espansione avviene rimuovendo ogni ostacolo, cioè ogni vincolo politico. Cadono, dunque, i confini, pubblici e privati, gli stati hanno frontiere sempre più fluide e il mercato è sempre più insofferente alla legislazione. Come la politica anche l’etica, la compassione, la società, la comunità, vengono distrutte, perché tutte comprendono la coscienza del limite che il valore astratto non può più tollerare. E allora sembra realizzarsi il motto thatcheriano “la società non esiste”, tragico corollario del monito hobbesiano del bellum omnium contra omnes. Aboliti i limiti tutti i legami sociali vengono a cadere, quelli geografici (le nazioni), quelli culturali (le tradizioni comunitarie), quelli psicologici (l’empatia) e l’unica entità ammessa è l’individuo sradicato, agente di commercio e sottoposto all’anarchica legge dell’economia senza limiti.