Lo storico Ignazio Masulli ha pubblicato “Chi ha cambiato il mondo?”, un saggio molto interessante che illustra l’evoluzione del capitalismo finanziario (Laterza, 2014, 227 pagine, euro 18).

 

Le economie di molte nazioni europee crescono poco poiché la maggior parte degli investimenti è indirizzata all’estero: la Francia nel 1980 ha investito il 3,6 per cento del Pil, nel 2012 è passata al 58 per cento; la Germania nel 1980 ha investito il 4,7 per cento del Pil, nel 2012 è salita al 45,6 per cento (quasi dieci volte di più); in Italia nel 1980 investivamo l’1,6 per cento del Pil, siamo arrivati a investire il 28 per cento del Pil nel 2012 (quasi venti volte di più); la Gran Bretagna nel 1980 ha investito il 14,8 per cento del Pil, nel 2012 è salita addirittura al 74,3 per cento del Pil; gli Stati Uniti hanno investito il 7,7 per cento del Pil nel 1980 e il 33 per cento del Pil nel 2012.

Con un esempio molto calzante possiamo affermare che nel 2010 in Francia gli investimenti fatti all’estero corrispondevano a circa 6 milioni di posti di lavoro potenziali, in Germania valevano 7 milioni di posizioni lavorative, in Gran Bretagna arrivano a incidere per quasi 9 milioni e in Italia i posti di lavoro creati all’estero arrivavano a più di 2 milioni (pari al 23,2 per cento del Pil). Tuttavia “sottolineare questi dati non significa sostenere che tutti i capitali disponibili in un paese devono essere investiti nella sua economia” (p. 68). Sono tutte scelte politiche, ma in ogni caso, data l’estrema precarietà di molte posizioni lavorative, la disoccupazione è sicuramente sottostimata: “secondo le statistiche in vigore nei paesi dell’OCSE risultano occupati tutti coloro che hanno lavorato per almeno un’ora nel corso della settimana precedente l’intervista. E a nulla sono valse le reiterate proteste contro un criterio tanto inadeguato e fuorviante”.

L’altra faccia della medaglia è questa: nel 1990 in Cina si sono riversati 20 miliardi di dollari di investimenti stranieri e nel 2012 sono diventati 832 miliardi; nel 1990 in India gli investimenti esteri erano solo 1,6 miliardi di dollari e nel 2012 sono diventati ben 226 miliardi (l’India è diventata la terza nazione con il Pil più alto, a parità di potere d’acquisto); nel 1990 in Brasile gli stranieri hanno investito 37 miliardi di dollari e nel 2012 ne hanno investito 702 (nel 1999 più del 55 per cento dei lavoratori brasiliani percepiva meno di un dollaro l’ora); nel 1990 in Messico gli americani, hanno investito 22 miliardi di dollari e nel 2012 hanno investito ben 314 miliardi (in Messico i grandi investitori sono quasi sempre le multinazionali americane); nel 1990 in Cile gli investimenti arrivano a 16 miliardi di dollari e nel 2012 diventano già 206; nel 1995 in Polonia gli stranieri hanno investito 7 miliardi di dollari e nel 2012 sono arrivati a investire ben 230 miliardi (la Polonia è la regina degli investimenti tedeschi e non, nell’Europa orientale).

Tutti questi dati dimostrano “che si è de localizzato sempre ed ovunque possibile, anche nei settori ad alta tecnologia e particolarmente avanzati. Il capitale detta la dura legge della massimizzazione del profitto nel breve termine e crea l’attuale mondo del lavoro servile non garantito, assegnato per un tempo molto limitato, con retribuzioni ai limiti della sopravvivenza”. I diritti dei lavoratori si riducono e nel lungo termine qualcuno dovrà organizzarsi per raccogliere le innumerevoli montagnole di scheletri raccolti ai bordi delle strade e naturalmente ci saranno i soliti sciacalli che faranno dei grandi affari con questa attività.

Gli enormi guadagni delle multinazionali sono stati investiti solo in piccola parte nel sistema produttivo e in gran parte sono stati investiti in attività finanziarie più o meno rischiose, anche “sotto la pressione degli investitori internazionali (fondi comuni d’investimento, fondi pensione, compagnie d’assicurazione, banche d’investimento, gestori di patrimoni ed altri). Questi, che detenevano quantità sempre maggiori delle azioni delle aziende (fino all’attuale 55 per cento del capitale di tutte le società quotate in borsa) hanno richiesto un rendimento dei capitali investiti del 15 per cento anche quando i tassi della crescita economica erano 4 o 5 volte inferiori” (p. 91).

In realtà, oltre allo sfruttamento della manodopera a basso costo e dell’ignoranza sindacale, gli speculatori finanziari non potrebbero incrementare i loro incredibili guadagni se non esistesse il modo di aumentare i debiti pubblici nazionali, i grandi debiti bancari, i grandi debiti aziendali e i piccoli e i grandi indebitamenti personali. Quindi la cultura del debito esasperato di stampo usuraio è la vera faccia oscura del capitalismo finanziario.

 

Ignazio Masulli ha insegnato Storia del lavoro e Storia dell’Europa contemporanea all’Università di Bologna (è andato in pensione alla fine del 2012). Per approfondimenti: www.ignaziomasulli.it.

 

Nota sulle esportazioni – Circa il 65 per cento delle esportazioni cinesi nei paesi sviluppati è composta dai prodotti fabbricati dalle multinazionali e dalle grandi imprese occidentali delocalizzate in Cina (tratto da “Cina S.p.A. La superpotenza che sta sfidando il mondo”, 2005).

Nota di approfondimento produttiva – L’India è il secondo produttore di filato tessile (dopo la Cina) e il terzo esportatore di capi d’abbigliamento (dopo Cina e Bangladesh). Il salario medio giornaliero è di poco più di 2 euro. Di solito i lavoratori cinesi guadagnano dai 50 ai 130 euro al mese, ma circa la metà viene spesa per rimborsare il vitto e l’alloggio all’azienda. Accade così che “la retribuzione del lavoro necessario per produrre un paio di scarpe Timberland, che in Europa si vendono a 150 euro, è di 45 centesimi di euro” (China Labour Watch, March 2007).

Nota di approfondimento internazionale – In molti casi “gli immigrati sono stati usati per riprodurre nei paesi più sviluppati alcune forme nuove e più accentuate di sfruttamento”. Inoltre le statistiche sottovalutano sempre i dati relativi alle persone immigrate, sia per la quota di immigrazione clandestina, sia “perché i figli non sono calcolati se non quando ottengono la cittadinanza del paese d’immigrazione, oppure perché sono iscritti nei permessi di soggiorno dei genitori” (p. 133). Comunque secondo i dati relativi al 2011 in Francia e nel Regno Unito erano registrati più di 7 milioni di immigrati, in Germania arrivavano a quasi 11 milioni e negli Stati Uniti superavano i 40 milioni.

Nota finale – S’impicchi l’economia! Se non può darmi da vivere (William Shakespeare & Amian Azzott).