Oggi, 24 dicembre, in Mauritania si tiene un processo ai danni di attivisti del movimento nonviolento antischiavista IRA (Iniziativa per la Rinascita del movimento Abolizionista), in carcere dall’11 novembre. Arrestati con motivazioni pretestuose durante una campagna pacifica anti-schiavitù e per il diritto alla terra, vedono quotidianamente violati i loro diritti nelle prigioni del paese. Il regime di Nouakchott, connivente con i gruppi di potere che mantengono ancora in schiavitù oltre 700.000 persone (un quinto della popolazione) dell’etnia harratin, da anni teme gli abolizionisti e li reprime con forza. Ne parliamo con Ivana Dama, vicepresidente della sezione italiana dell’IRA.

 

Ivana, innanzitutto a che punto è ora la lotta contro la schiavitù in Mauritania?

La situazione è molto tesa. Il movimento abolizionista continua a crescere: ovunque nel Paese nascono spontaneamente gruppi, composti soprattutto da giovani, che simpatizzano con l’IRA e organizzano riunioni, iniziative, proteste. Sempre all’insegna della nonviolenza, l’unica modalità possibile, lo strumento per la verità, che questi ragazzi praticano in maniera esemplare quasi naturalmente, senza una particolare formazione. Si è creato anche un certo fermento intellettuale intorno ai temi della schiavitù, dei diritti umani, delle libertà. L’IRA fa parlare di diritti, di possibilità, e si tratta di un cambiamento epocale in Mauritania: il movimento ha avuto il merito di risvegliare le coscienze, di far impegnare gli intellettuali anche nel recupero della Storia, di far interrogare su qualcosa che in passato si è fatto finta di non vedere. Il problema è che di fatto non c’è libertà di manifestazione ed espressione, il potere reprime indiscriminatamente. Anche tutti i giornalisti, non solo harratin ma anche arabo-berberi, che scrivono di IRA vengono perseguitati, alcuni sono licenziati, i siti internet vengono messi sotto controllo o chiusi, ci sono stati tentativi di chiudere i profili Facebook dell’IRA e anche di creare una normativa ad hoc per limitare la libertà di espressione anche sulla rete. Si sta diffondendo sempre di più, anche nelle fasce della popolazione relativamente privilegiate, la consapevolezza di essere sotto regime.

Le strategie governative per tappare definitivamente la bocca all’IRA, all’interno della Mauritania e all’estero, si sono intensificate da quando il presidente del movimento Biram Dah Abeid, storico attivista antischiavista e Premio ONU per i Diritti Umani 2013, è arrivato secondo alle elezioni presidenziali di giugno 2014. Un grande risultato se si pensa che ha partecipato da outsider, senza finanziatori, e che gli è stato impedito di partecipare alla consultazione dietro le insegne di un nuovo partito che sarebbe dovuto nascere attorno all’IRA. In effetti, al netto dei brogli elettorali del presidente riconfermato Mohamed Ould Abdel Aziz, il vero vincitore delle elezioni è stato Biram. Da allora, il regime ha tentato di ostacolare in tutti i modi le manifestazioni pacifiche che in questi mesi si sono susseguite, con repressioni violente, arresti arbitrari, detenzioni temporanee in tutto il Paese. E adesso la repressione colpisce anche le donne: fino a poco tempo fa, al massimo venivano lanciati dei lacrimogeni, ora invece le donne vengono anche arrestate. Una di queste, la portavoce IRA Mariem Cheikh, è tra i detenuti per gli eventi della carovana a novembre.

Cosa è successo l’11 novembre?

Era in corso la Carovana fondiaria per il diritto alla terra degli harratin, una campagna pacifica partita da Nouakchott con destinazione Rosso (sud-ovest del Paese, al confine con il Senegal) che passando per tanti villaggi ha affrontato la cosiddetta “schiavitù fondiaria”. Le terre, soprattutto nel sud, per gli harratin non sono accessibili, anche se loro per discendenza diretta ne sarebbero i legittimi proprietari: c’è un discorso discriminatorio per il loro essere neri e di quell’etnia. La volontà era sensibilizzare, riflettere, chiedersi come protestare in maniera nonviolenta, come chiedere con insistenza quella riforma fondiaria promessa dagli anni ’80 e mai attuata, anche creare gruppi di studio sul recupero del diritto alla terra. Biram Dah Abeid si trovava già a sud, in procinto di partire per due mesi in Europa, per una serie di incontri con la diaspora e varie iniziative. Le autorità governative, sapendo anche di questi programmi, strategicamente sono andati a prendere lui e tutti gli attivisti “di punta” dell’IRA. In dieci sono stati arrestati a Rosso, le accuse principali sono razzismo, “incitamento alla ribellione” e “disobbedienza agli ordini delle autorità”, ma i dossier a loro carico in realtà sono vuoti. Tra le accuse c’è anche la “manifestazione non autorizzata”, ma in realtà l’IRA, non riconosciuta legalmente, aveva organizzato questi incontri pubblici pacifici con ONG locali riconosciute, per avere anche le carte in regola. Il vero motivo è che c’è una sorta di “conto in sospeso” tra Biram e il presidente Abdel Aziz, che vuole far tacere lui e l’IRA.

Tant’è vero che, nell’ambito degli eventi di Rosso, in contemporanea sono stati effettuati anche degli arresti nella capitale Nouakchott: la portavoce IRA, che era in procinto di raggiungere la carovana, e il responsabile di IRA per la capitale. E pochi giorni prima altri quattro ragazzi del Comitato Pace IRA sono stati arrestati nella moschea centrale di Nouakchott, dove durante il sermone della grande preghiera del venerdì avevano contestato l’imam per il suo strumentalizzare l’islam per legittimare la pratica della schiavitù in favore dei poteri forti.

In totale al momento sono 16 i militanti IRA in carcere tra Nouakchott e Rosso.

In quali condizioni vivono gli attivisti IRA nelle carceri?

Soffrono tanto in prigione, la detenzione è molto dura. Ci sono prove di torture, percosse e ingiurie in carcere. Le condizioni delle prigioni sono malsane: il tasso di umidità è altissimo, anche per via delle temperature locali, e ci sono molte zanzare. Biram pur essendo giovane non ha una salute ottima ed è diabetico e il vicepresidente Brahim Bilal Ramdhane, che divide con lui la cella, non è in condizioni ottimali. Anche altri attivisti non stanno bene, solo i più giovani riescono a reggere meglio. I prigionieri in questo momento non hanno le cure mediche, non hanno la posta e molte volte le autorità fanno saltare le visite dei familiari, violando tutti i loro diritti. Questo accade nonostante la Mauritania abbia firmato diverse Convenzioni internazionali, come quella contro la tortura. Biram nel primo periodo di detenzione ha avuto diritto a un’ora al giorno di telefonate sotto controllo, in cui veniva ascoltato dai carcerieri e ogni telefonata veniva registrata. Da due settimane, quando hanno capito che Biram traeva forza da queste telefonate, gliele hanno proibite. Il portavoce di IRA a Nouakchott ha invece seri problemi di salute, prende delle medicine, ma nei primi 20 giorni gli hanno negato tutte le visite mediche e il diritto alle cure. Solo dopo, quando la sua condizione si stava aggravando, glielo hanno consentito.

Sui ragazzi del Comitato Pace a Rosso sono invece stati trovati dei segni di percosse, sui corpi ci sono testimonianze di bastonate e di scosse elettriche, hanno impedito loro di dormire e di andare in bagno. Inoltre, spesso l’ora d’aria salta e una cella di 2 metri per 2, pur essendo ragazzi di una certa stazza. Stanno lontano dalla capitale e le famiglie devono spostarsi fino a Rosso, all’estremo sud del Paese, al confine col Senegal. Un altro problema è far mangiare i detenuti, perché al contrario del carcere di Nouakchott a Rosso tutta la guardiania è arabo-berbera e si temono ritorsioni sul cibo o avvelenamenti da parte di queste guardie, per cui è meglio seguirli dall’esterno.

La situazione più delicata è comunque quella di Mariem Cheikh, della quale abbiamo meno feedback poiché è da sola nella prigione femminile, dove non ci sono altri attivisti. Non sappiamo come venga trattata lì. Una situazione tragica, che tutti affrontano con molta forza riuscendo a non perdere la testa. Sono pronti a dare la vita pur di vedere un Paese che cambia, sono stanchi di essere considerati cittadini inferiori perché neri ed è questo che dà loro la forza di resistere: non far subire anche ai loro figli le stesse vessazioni.

Gli attivisti ora verranno processati?

Da un giorno all’altro il 16 dicembre, su pressione della presidenza, i giudici hanno fissato il processo al 18, due giorni dopo, violando una legge che prevede che gli avvocati della difesa siano informati almeno una settimana prima del processo, per permettere gli spostamenti di chi assisterà al processo, anche dall’estero, e i dovuti preparativi. Senza difesa e con dossier vuoti, sarebbe stato un processo farsa. Così, il 18 mattina quando le guardie hanno aperto la cella per prelevare Biram Dah Abeid e portarlo in tribunale, lui si è rifiutato di uscire, dicendo di non accettare un processo a quelle condizioni e che non si sarebbe presentato perché in assenza dei suoi avvocati. Inoltre lui e gli altri detenuti di Rosso hanno scritto una lettera al prefetto locale spiegando i motivi della non comparizione davanti alla corte. Ora il processo è rinviato al 24, in piena vigilia di Natale, data in cui non a caso gli osservatori internazionali avranno problemi a scendere per controllare il regolare svolgimento. Per quanto riguarda i detenuti di Nouakchott la questione è diversa e non si sa ancora quando si svolgerà il processo. Fortunatamente, nonostante la campagna mediatica costruita dal regime, vari partiti dell’opposizione e altre ONG da qualche settimana si stanno pronunciando a favore dell’IRA ed hanno emanato un comunicato stampa congiunto, condannando la violenza del governo ed il suo uso esagerato della forza.

Hai ipotesi su come potrà andare il processo?

Difficile avanzare pronostici, in un Paese dove si decide in base all’arbitrio del dittatore. Personalmente penso che al massimo daranno agli attivisti i soliti sei mesi di carcere più l’ammenda, come successo altre volte. Periodicamente le carceri della Mauritania si stanno riempiendo di attivisti dell’IRA detenuti con arresti arbitrari e processi farsa. L’IRA sta cambiando il Paese ma al caro prezzo di tanti attivisti di punta in galera. Ma credo che non siamo lontani dal riconoscimento ufficiale dell’IRA, una volta usciti di prigione gli attivisti, e a mio parere l’affaire Biram può far cadere Abdel Aziz. Speriamo che dopo questa vicenda riusciremo a lavorare ancora meglio e a guidare non solo la liberazione, ma anche il loro recupero e il reinserimento in società delle persone ridotte in schiavitù: dai bambini, alle donne, agli anziani. Purtroppo sono ancora moltissimi i mauritani in queste condizioni.

Come si è mossa la solidarietà internazionale?

Dal nostro punto di vista, molto positivamente. Alle nostre iniziative di solidarietà all’estero c’è sempre una bella risposta e qualcosa si muove anche nelle istituzioni continentali. Per la prima volta il Parlamento europeo ci ha degnato di nota, approvando il 18 dicembre una risoluzione per richiedere l’immediata liberazione degli attivisti e il riconoscimento dell’IRA, affinché la Mauritania ammetta che esiste il fenomeno della schiavitù e lo affronti seriamente. Una delegazione del movimento a Bruxelles, con il portavoce in Europa Abidine Merzough, quello italiano Yacoub Diarra e l’UNPO (Unrepresented Nations and Peoples Organization) ha organizzato un sit-in davanti al Parlamento e varie iniziative. Il presidente Mohamed Ould Abdel Aziz si sente così più attaccato dai suoi “amici” europei: finora si erano schierati pro harratin solo Stati Uniti e Canada, ora oltre al Parlamento europeo anche Francia e Belgio stanno cambiando posizione.

E per questo Aziz sta perdendo lucidità, anche in sedi internazionali. Ad esempio al vertice della Francofonia di qualche settimana fa a Dakar, poco dopo gli arresti, alcuni Stati lo hanno boicottato e lui ha reagito abbandonando la riunione, infuriato. Ha poca credibilità anche in quanto dittatore, e sta pian piano perdendo l’appoggio dei suoi alleati internazionali, tanto da aver dichiarato che limiterà gli ingressi nel Paese, ufficialmente per “difenderlo dallo sfruttamento economico”.

Come giudichi il trattamento della questione da parte della stampa?

È incredibile che non venga dato a vicende come queste il giusto risalto, soprattutto in Italia. Stiamo denunciando che la schiavitù non è mai finita. Vi stiamo dicendo che a cinque ore d’aereo dall’Italia si nasce ancora schiavi in base al colore della pelle e ciò significa che quello che abbiamo studiato sulla fine della schiavitù non è vero… cosa altro vi dobbiamo dire per attirare l’attenzione?

Le attività dell’IRA stanno continuando anche ora?

Certo, continuiamo a lavorare per la nonviolenza, a rimanere uniti, a denunciare, in Mauritania e all’estero. Ma ovviamente la questione dei detenuti è al centro, in questo momento. Una delle priorità adesso, nell’emergenza, è raccogliere fondi, anche all’estero. Serve sostegno alle famiglie dei prigionieri che sono in difficoltà e non riescono a seguirli: non hanno soldi per il cibo, i trasporti, gli alloggi dove vanno a stare quando si spostano. Chi volesse dare una mano dall’Italia può contattarci sulla Pagina Facebook IRA Mauritania Sezione Italia e alla mail ira.italia@libero.it.

Per firmare la petizione su change.org che chiede la liberazione dei detenuti, clicca qui.

 

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