Il documentario Still the Enemy Within del regista inglese Owen Gower ripercorre a trent’anni di distanza l’eroica lotta di 160.000 minatori contro Margaret Thatcher, con uno sciopero di un anno (dal marzo 1984 al marzo 1985) concluso con una pesante sconfitta. E non solo dei minatori, costretti a tornare al lavoro e poi a vedere i pozzi chiudere uno dopo l’altro, ma anche e soprattutto del movimento sindacale britannico, di cui l’Unione Nazionale dei Minatori di Arthur Scargill (soprannominata con disprezzo l’”armata di Arthur”) era la parte più combattiva.

Alternando materiale d’archivio, immagini inedite e interviste ad attivisti invecchiati ma ancora indomiti, il documentario ripercorre le tappe di una battaglia squisitamente ideologica: i conservatori preferiscono distruggere un’industria fondamentale per il paese (a tutt’oggi il Regno Unito importa 40 milioni di tonnellate di carbone l’anno, ossia il 40% del fabbisogno energetico), pur di eliminare quello che la Thatcher definisce “il nemico interno, il nemico della democrazia” e spazzare via ogni ostacolo alla deregulation selvaggia del mercato del lavoro, alle privatizzazioni e ai profitti senza freni. Il prezzo è la distruzione di comunità intere, dal Galles, alla Scozia, allo Yorkshire, un impoverimento e una disoccupazione dilaganti.

I mass media contribuiscono solerti: minatori disarmati vengono presentati come estremisti violenti e si tace sulla brutalità della polizia, che li attacca con cariche a cavallo, manganellate e cani, per non parlare degli arresti arbitrari e dei licenziamenti per rappresaglia. Dall’altra parte però tutto il paese e non solo le comunità coinvolte si mobilita con raccolte di fondi e iniziative di solidarietà. La mancanza di un appoggio sostanziale della direzione nazionale dei sindacati, che nonostante le richieste dei minatori non proclama lo sciopero generale e l’abile politica di “divide et impera” del governo, che concede un trattamento privilegiato a chi continua a lavorare, oltre alle dure privazioni di un anno senza stipendio, alla fine piegano i minatori. E non serve a molto che i crumiri più tardi si pentano amaramente della scelta fatta, vedendo i loro pozzi in teoria sicuri chiudere uno dopo l’altro.

Sembra una storia lontana, eppure guardando il documentario non si può fare a meno di trovare dei parallelismi inquietanti con gli attacchi forsennati di Renzi all’articolo 18 e ai sindacati residui di un’epoca superata. Il disegno è uguale a quello della Thatcher: prendere un simbolo (in un caso la categoria di lavoratori più combattiva, nell’altro uno dei pochi ostacoli rimasti alla totale precarizzazione del lavoro) e accanirsi contro di esso presentandolo come un nemico della modernità e della democrazia.

La posta in gioco, trent’anni fa nel Regno Unito e oggi in Italia, è altissima e molto più ampia di quanto possa sembrare a prima vista. I minatori britannici lo avevano ben chiaro, ma qui c’è la stessa consapevolezza? Sarebbe triste che tra trent’anni un documentario sull’Italia del 2014 contenesse il commento amaro e fiero di uno degli attivisti intervistati: “Abbiamo perso, ma avevamo ragione”.