Intervista all’autore Matthew Johnstone

Pubblicato in Australia nel 2005, è stato promosso e trasformato in video dall’OMS, per sensibilizzare l’opinione pubblica sul male oscuro che affligge milioni di persone. «La cura migliore? Fare esercizio fisico, meditare e avere una valida rete di supporto», afferma l’autore. La nostra redazione ha sottotitolato il video per renderlo disponibile al pubblico italiano.

di Massimo Nardi

La depressione colpisce oggi 350 milioni di persone e provoca 850.000 morti ogni anno, secondo gli ultimi dati forniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Entro il 2020 rappresenterà invece la seconda causa di disabilità lavorativa dopo le malattie cardiovascolari. E’ una malattia con cui bisogna fare i conti, e al più presto, proprio in un periodo di crisi e di valori che ne accentua le dimensioni: la perdita del lavoro e l’aumento della povertà sono infatti strettamente correlate con l’insorgenza della malattia, con una crescita dello 0,79% dei suicidi per ogni aumento dell’1% nel tasso di disoccupazione.

Chi ha vissuto in prima persona la malattia è Matthew Johnstone, autore australiano del libro “I had a black dog“, che racconta i sintomi della depressione, vista appunto come un grande cane nero che ti segue ovunque e ti affossa in ogni momento, e i tentativi per uscirne fuori. Il libro, pubblicato in Australia nel 2005, ha avuto un tale successo al punto che l’OMS lo ha promosso come video, la cui voce narrante è proprio quella dell’autore. Il quale si è reso disponibile per un’intervista al nostro giornale.

Sig. Johnstone, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha utilizzato il suo libro, I had a black dog, per una campagna di sensibilizzazione sulla depressione. Videoclip, che ha totalizzato circa 4 milioni e mezzo di visualizzazioni, ed è stata tradotta dalla nostra redazione e resa disponibile al pubblico italiano. Dov’è nata l’idea di scrivere il libro?
«Credo che l’ispirazione venga proprio dall’esperienza della depressione unita al lavoro che facevo, cioè il creativo in ambito pubblicitario. Il mio lavoro verteva tutto sulla comunicazione semplice ed efficace.  Per spiegare cosa fosse la depressione mi sono avvalso della stessa metodologia che avrei utilizzato per un promo: arte visiva unita a poche parole. Questo breve libro è stato pubblicato in oltre 20 Paesi e il video “I had a black dog, his name was depression” ha superato le 4 milioni di visualizzazioni. Il 2015 sarà il decimo anniversario del libro e ancora mi sorprendo di quanto questo riesca a fare breccia nell’animo delle persone con una impronta positiva».
Sul suo sito scrive che la depressione ha accompagnato la sua vita negli ultimi 20 anni. Quando si è accorto di essere depresso?
«Come ho già detto, ho avuto una carriera di successo nel mondo pubblicitario: il mio lavoro consisteva soprattutto nell’essere al top, vincendo negli affari, impressionando i clienti, ricevendo premi, e cercando sempre di apparire formidabile e così via. Avere la depressione voleva dire, invece, arrancare fradicio in una pozza colma di catrame, con addosso il peso di 10 coperte bagnate, con vento contrario, su per una salita ripida. Si trattava di due mondi agli antipodi. Sono stato visitato da diversi psicologi e psichiatri che mi hanno detto che ero “depresso” per colpa del mio ego, perché ero un uomo, e perché avevo deciso di non credere (scioccamente) nell’azienda per cui lavoravo».
Come ha reagito?
«All’inizio non bene. Ma, una volta che iniziai a rendermi conto che, andando avanti, la situazione non sarebbe affatto migliorata, realizzai che dovevo fare qualcosa di serio per prendermi veramente cura di me stesso. Bisogna combattere contro tante sfaccettature e problemi mentali, come l’ansia e la tristezza, ma ammettere a se stessi e agli altri di avere un problema per trovare il giusto aiuto è la chiave di volta. Come dico spesso, non c’è vergogna nel chiedere aiuto, l’unica vergogna è rinunciare a vivere. Abbassare i livelli di stress, acquisire buone abilità comunicative, fare esercizio fisico, meditare, avere un’attenta consapevolezza e una valida rete di supporto sono elementi fondamentali».
Una delle cause che portano alla depressione è la perdita del lavoro. Il nostro giornale, per esempio, dà voce a chi ha attuato un cambiamento nella propria vita e nel proprio lavoro. Pensa che il nostro sistema economico e sociale sia sbagliato e che possa causare disturbi depressivi?
«E’ vero che il denaro non porta la felicità, ma alla fine tutti desiderano avere un tetto sulla testa e vogliono essere in grado di provvedere economicamente ai propri figli, garantendo loro un futuro e via dicendo. Il denaro è sicurezza, perciò la sua mancanza può avere un profondo effetto sul nostro benessere e sulla nostra visione delle cose. Come un individuo reagisca alla perdita del lavoro o alle difficoltà economiche è strettamente correlato a quanto egli sia flessibile al cambiamento o alla disponibilità di risorse e a che tipo di rete di supporto abbia intorno».
Ci sono vari modi di trattare la depressione. Anche quello farmacologico. Alcune ricerche mettono in luce l’incremento dei suicidi tra i pazienti curati con gli psicofarmaci. Cosa pensa al riguardo?
«Non sono abbastanza qualificato per poter rispondere a questa domanda, ma so che l’Australia (nella quale vivo) è al secondo posto nella classifica dei Paesi che prescrivono antidepressivi, secondo l’OECD (The Organisation for Economic Co-operation and Development). L’Islanda è al primo posto. Noi australiani siamo solo 24 milioni di persone che vengono considerate da tutti felici e fortunate. In un tempo in cui tutto è diventato immediato, le persone esigono che questo accada anche nelle proprie vite quando le cose non vanno come vorrebbero. Apparentemente i medici hanno sempre meno tempo da dedicare ai loro pazienti, in media 10 minuti ciascuno. Inoltre, subiscono forti pressioni da parte delle compagnie assicurative e farmaceutiche. Ma ricorrere al farmaco come soluzione del problema non è sempre la risposta. Credo che le persone che soffrano di un disagio mentale siano persone sane che forse, come auto un po’ difettose, necessitino di una messa a punto e di un controllo al motore per ripartire bene. Bisogna fare attenzione, una vera comprensione del problema e una gestione seria sono fondamentali come cura. E non sentirsi dire: “prendi questi farmaci e ci vediamo tra sei settimane”».

Leggi l’intervista in inglese.

L’articolo originale può essere letto qui