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Avrebbe dovuto essere un’altra guerra. Per distruggere un altro Stato Canaglia. Per punire Assad che, a Ghouta, il 21 agosto 2013, “aveva fatto uccidere con gas Sarin 1600 civili innocenti”. Una immane strage attestata, il 24 agosto, dal comunicato, mai smentito, di Médecins Sans Frontières; ai primi di settembre, da quello di un’altra sedicente organizzazione umanitaria: Human Right Watch; da una valanga di video presi per Vangelo da frotte di giornalisti e attivisti politici e, il 14 settembre, da una davvero sgangherata indagine della Nazioni Unite.

Pochissimi coloro che – mentre la campagna mediatica contro il “criminale Assad” raggiungeva toni parossistici e i bombardieri già scaldavano i motori – tentavano di far luce su quello che era davvero accaduto a Ghouta. Tra questi Sibialiria. Ma se oggi, ad un anno di distanza, dopo che la verità su Ghouta è stata acclarata – anche da inchieste effettuate, nel 2014, da prestigiosi istituti quali il MIT (vedi anche qui), da icone del giornalismo investigativo come Seymour Hersh, o, addirittura, dal New York Times  – torniamo su questo argomento, non è per vanità (ci sia consentito, comunque, un pizzico di orgoglio) o per pretendere le scuse dai tanti cialtroni che ci accusavano di essere “al soldo di Assad”.

No. Se oggi torniamo sull’analisi della campagna mediatica inerente Ghouta, costellata da video zeppi di evidentissime incongruenze, è solo per ribadire un vecchio assioma che sta alla base della propaganda e cioè che una menzogna per diffondersi e radicarsi ha assoluto bisogno di un terreno già predisposto ad accoglierla. Non basta, cioè, l’impegno di strapagati giornalisti e di potentissime lobbies editoriali; non a caso, prima della guerra all’Iraq, le bufale delle “armi di distruzioni di massa” in mano ad Assad – nonostante un gigantesco impegno mediatico (condotto, tra gli altri dalla tentacolare Hill&Knowlton) per imporle – non convinsero quasi nessuno. No. Bisogna che prima sia forgiata una opinione pubblica che accetti l’idea dello “Stato Canaglia” da abbattere. E questo, purtroppo, è già avvenuto dai tempi della guerra alla Libia.

Ma cosa è successo veramente a Ghouta? Non essendo stato redatto alcun rapporto ufficiale da parte delle Nazioni Unite, bisogna accontentarsi della voce Ghouta chemical attack di Wikipedia che, pur nella sua notevole mole di informazioni e la sua pretesa di “obbiettività” non cita – tra i ben 305 riferimenti bibliografici -nessuna fonte che non sia main-stream. Leggendo questo testo si nota, subito, una stranezza: “Il numero complessivo di morti non è definito: le stime variano da almeno 281 a 1.729 morti”. Un range davvero notevole e che non si spiega certo con una qualche macchinazione del “regime di Assad” per nascondere la verità, considerando che l’area era – ed è rimasta per molto tempo dopo la strage – sotto il controllo dei “ribelli”. In ogni caso, anche 281 morti sono una cifra considerevole e che, certamente, avrebbe dovuto essere attestata da altrettante vittime, molte delle quali, considerando le presunte modalità dell’attacco chimico (razzi sparati in piena notte contro Ghouta), avrebbero dovuto essere nuclei familiari. Eppure nei numerosi video che dovrebbero attestare l’attacco non si vedono tra le vittime persone anziane o donne adulte. Solo maschi (quasi tutti in età adulta) e bambini (mai assistiti dai loro genitori). Perché?

Già da subito sarebbe stato doveroso per i media porsi questa domanda; anche alla luce dell’l’unica inchiesta realizzata sul campo, immediatamente dopo la strage – dal giornalista italiano Gian Micalessin – che, intervistando persone che abitavano a poche centinaia di metri dal luogo del “presunto attacco chimico” (per fare nostre le parole di Micalessin) evidenziava una dinamica della strage completamente diversa da quella che era stata diffusa dal Syrian Observatory For Human Rights. Una dinamica – oggi attestata anche da approfondite indagini, di cui sopra – che, un anno fa, avevamo già delineato con articoli come questo, questo, questo, questo, questo, questo.

Il 21 agosto 2013 la strage a Ghouta, (come da questa intervista riportata, il 28 agosto 2013,  da Dale Gavlak)  non fu determinata da un attacco con missili carichi di Sarin ma fu conseguenza di un incidente (probabilmente l’accidentale rottura di un contenitore) avvenuto in un deposito come questo dove i “ribelli” stipavano gas velenosi (verosimilmente né Sarin, né composti organo fosforici) ad essi forniti, secondo le attendibili informazioni raccolte da Hersh, dalla Turchia. Da questo deposito il gas, dopo avere intossicato e ucciso gli occupanti si è sparso nell’abitato di Ghouta intossicando e, forse, uccidendo qualche ignaro passante. Dopodiché i “ribelli” hanno probabilmente organizzato (in un sotterraneo, per non essere scoperti) un improvvisato ospedale, servito sia per depositare le salme dei “ribelli” morti, sia come scenografia per la creazione di video propagandistici i quali, per la fretta con la quale sono stati realizzati, non potevano non avere colossali incongruenze.

Questi video, montati (presumibilmente dal Syrian Observatory For Human Rights) con l’inserimento di scene provenienti da altre aree della Siria, sono stati distribuiti a tutti i media e al Congresso degli Stati Uniti quale “pistola fumante” nelle mani di Assad e, quindi, giusta causa di una ennesima “guerra umanitaria”. La successiva strampalataindagine sul campo” condotta a Ghouta da un team delle Nazioni Unite (sbugiardata, nel settembre 2013, dall’inchiesta di Sharmine Narwani e Radwan Mortada, nel dicembre 2013, dall’inchiesta di Robert Perry, e da altre riportate qui) non poteva non conformarsi alla teoria dell’attacco missilistico, arrivando, così, a considerare come “vettori dell’attacco” razzi (portati al team dai “ribelli”) aventi una traiettoria massima di 2.000 metri (le presunte “postazioni missilistiche dell’esercito di Assad” distavano sette chilometri da Ghouta) e come agente dell’attacco “Sarin”, le cui “tracce” furono spedite al Centro per la guerra batteriologica di Porton Down in Gran Bretagna che, fino ad oggi, non ha ancora reso pubblici gli esiti delle analisi.

Ma ritorniamo ai bambini ripresi nei “video di Ghouta” che, come già detto , non sono mai assistiti dai genitori, ma sempre circondati da “ribelli”. Chi sono? Da dove vengono? Perché i “ribelli” trattano le loro salme con tanta indifferenza (si veda, ad esempio questo “ribelle” che sventola il corpo di un bambino morto davanti la videocamera o questi “ribelli” assolutamente imperturbabili – ad eccezione di un uomo che sbraita tenendo celato il volto – mentre seppelliscono ben otto bambini).

Attualmente gli sforzi dell’ISTEAMS sono dedicati alla identificazione di questi “bambini dei video” che, quasi certamente, sono tra quelli rapiti dai “ribelli”, nell’agosto 2013, nei villaggi alawiti nei dintorni di Latakia, 200 km da Ghouta. Purtroppo questa ricerca si scontra con enormi difficoltà, sia per l’esodo caotico di milioni di siriani, sia per gli scarsi mezzi di cui dispone l’ISTEAMS, sia per il disinteresse di tante sedicenti “organizzazioni umanitarie” (che sul disastro umanitario in Siria stanno costruendo le loro fortune) verso questa ricerca. Gli sforzi dell’ISTEAMS, comunque, continuano, sia per identificare le fosse dove questi bambini sono seppelliti sia per identificare chi li ha uccisi. Forse perché non arrivavano i soldi del riscatto, forse per rendere più convincenti i video.

La Redazione di Sibialiria