Buona Pasqua a tutte e a tutti. A chi la vive come festa della resurrezione, a chi come festa della liberazione, a chi come festa della speranza. La speranza che l’umanità ce la farà a convertirsi alla cultura del rispetto. 

Fanno ben sperare le tante donne e i tanti uomini che si battono per l’equità, i diritti, la dignità, i beni comuni. Che frequentano le botteghe del commercio equo, che aderiscono ai gruppi d’acquisto solidale, che praticano il consumo critico e la finanza etica. Che vivono la sobrietà, la nonviolenza, la sostenibilità, la solidarietà e l’accoglienza. In una parola fanno ben sperare tutte quelle persone che hanno fatto della coerenza un valore politico. Perché la coerenza libera, la coerenza scalza, la coerenza trasforma.
Il nostro primo dovere è lavorare per chi la speranza l’ha persa. Una lista molto lunga che si apre con i migranti che a casa propria una prospettiva di vita non l’hanno. Vorrebbero raggiungere l’Europa con visto regolare, ma l’Europa è diventata una fortezza che ammette solo le braccia che servono. Tutti gli altri li respinge. Con ogni mezzo: muri, fili spinati, pattugliamenti per mare, terra e cielo. Nel 2004 ha istituito il Frontex, una forza di polizia intergovernativa con l’obiettivo di impedire ai clandestini di oltrepassare le frontiere europee. In Italia è stato perfino istituito il reato di clandestinità, successivamente rimosso. E dopo la tragedia del 3 ottobre 2013, che vide allineate 366 bare sul molo di Lampedusa, anche la politica dei respingimenti si è allentata. Sicuramente passi avanti, ma troppi morti giacciono sul fondo del Canale di Sicilia. Cadaveri di donne, uomini, bambini, colpevoli solo di aver cercato di fuggire da situazioni di guerra, fame, repressione. Dei 35mila immigrati approdati sulle coste italiane nel 2013, il 66% provengono da zone di guerra: 9.805 siriani, 8.443 eritrei, 3.140 somali, 1.050 maliani, 879 afghani.
Per una volta dobbiamo affrontare il tema dell’immigrazione con gli occhi degli altri. Dobbiamo ricordarci che emigrare non è un sollazzo neanche quando si viaggia in aereo. E’ sempre una rottura, uno sradicamento che i più vorrebbero evitare. L’accettano perché non hanno alternative. Allora affrontare il tema dell’emigrazione con gli occhi dei migranti significa innanzi tutto operare affinché ognuno possa vivere dignitosamente a casa propria. Certo col diritto a viaggiare. Ma come scelta, non per costrizione.
Perciò il nostro primo compito è operare per più equi rapporti Nord Sud, affinché quote crescenti di ricchezza rimangano nei paesi di origine. Dobbiamo batterci per reintrodurre accordi che garantiscono prezzi stabili sulle materie prime. Dobbiamo batterci per mettere al bando la speculazione che genera volatilità dei prezzi  e quindi insicurezza nei  produttori. Dobbiamo batterci per garantire salari vivibili a chi lavora nelle fabbriche globali. Ma dobbiamo anche batterci per interrompere il commercio di armi che alimenta le guerre e rafforza i dittatori.
Contemporaneamente dobbiamo rinvigorire la cooperazione. Ma quella buona che va a vantaggio degli ultimi. Invece l’Unione Europea sta andando nella direzione opposta. Sta sostituendo sempre di più l’aiuto alle popolazioni, con accordi di libero scambio che permettono all’Europa di piazzare nei mercati del Sud i suoi scarti che fanno concorrenza sleale ai prodotti locali. Non possiamo continuare a scuotere il pero e poi sorprenderci perché le pere cadono a terra.
E dopo esserci impegnati per permettere a tutti di vivere dignitosamente a casa propria, dobbiamo impegnarci  per accogliere umanamente chi continua ad arrivare. Con l’obiettivo di garantire pieni diritti, compresi quelli politici, a chi si ferma. Tanto più che abbiamo bisogno di loro. Già oggi gli  immigrati. contribuiscono al 12% del nostro prodotto interno lordo. Senza le loro tasse avremmo difficoltà a finanziare  pensioni e servizi. Una conferma che nessuno può vivere da solo. Che abbiamo tutti bisogno l’uno dell’altro.
La nostra sfida è capire che si vive meglio nella condivisione che nella sopraffazione. La strada è lunga. Ma ce la faremo.