Dopo l’Azerbaigian continua in Georgia la missione su diritti umani. Impressioni e racconti (prima parte).

Chiunque desideri parlare con un georgiano della situazione politica del paese deve, prima di tutto, essere disponibile ad ascoltare in silenzio il racconto della secessione delle due  regioni  autodichiaratesi stati indipendenti.

Abkhazia e Sud-Ossezia: due guerre mai concluse

Le guerre perse con l’Abkhazia nel 1993 e con  l’Ossezia del sud, l’ultima delle quali nel 2008, costituiscono delle ferite tuttora aperte e rappresentano un ricordo vivo nella memoria collettiva: Tbilisi per lungo tempo ha  portato su di sé  tutti i segni delle due guerre contro le repubbliche indipendentiste e degli scontri interni alla stessa Georgia succedutisi nella prima metà degli anni ’90. Ancora nel ’98 la capitale non aveva ripristinato completamente l’energia elettrica , in parecchie zone della città non c’era riscaldamento e spesso mancava il cibo.

I rifugiati sono ancora oggi oltre 270.000, pari a poco meno dell’8% dell’intera popolazione del paese, cifra che salirebbe ulteriormente se nel conto fossero inseriti anche i bambini nati in Georgia, ma figli di chi ha dovuto abbandonare la propria terra. Inizialmente le autorità georgiane continuavano a rassicurare le popolazioni fuggite dalle guerre che presto sarebbero rientrate nelle loro case; oggi prevale il realismo, gli attuali confini non sembrano modificabili  e di conseguenza è necessario pensare ad una sistemazione definitiva.

Negli ultimi anni i governi georgiani hanno cercato di essere conseguenti a tale evidenza storica: non vi sono più campi, dal 2006 esiste un progetto nazionale finalizzato all’integrazione, i rifugiati sono sistemati gratuitamente in case di proprietà pubblica, scuole e alberghi o in palazzi di proprietà di privati e nel frattempo vengono costruite nuove case; chi sceglie di vivere da amici e parenti riceve un sostegno economico dalla Stato.

Nel governo vi è un ministro per le politiche dei rifugiati; nonostante gli sforzi e i progetti speciali loro destinati la disoccupazione tra costoro resta alta, attorno al 60%. Le scelte dell’esecutivo in alcuni casi hanno provocato momenti di forte  tensione, come tre anni fa, quando il governo ha deciso di spostare i rifugiati in regioni periferiche, in campagna e comunque fuori dalle città, in particolare lontano da Tbilisi; chi rifiutava il trasferimento coatto, perché nel frattempo aveva costruito delle relazioni sociali o aveva trovato un lavoro, perdeva lo status di rifugiato con i benefici ad esso collegati.  Gli spostamenti coatti ora sono stati sospesi, ma ormai è tardi: la quasi totalità dei trasferimenti è  stata già realizzata.

Molte sono le ONG – tra queste molto attivo è il CHCA ,Charitu Humanitarian Centre “Abkhazeti” – che collaborano con il governo nelle politiche  di assistenza verso i rifugiati, con un impegno gravoso per le casse dello stato in un paese di poco più di 4 milioni di abitanti. Sono state approvate leggi speciali e la loro condizione di vita è fortemente migliorata nell’ultimo anno; la Georgia  ha firmato la Convenzione internazionale per la loro protezione e sono arrivati fondi dall’UE, dalle grandi ONG internazionali e dagli USA.

Un paese sospeso tra la Russia e l’Occidente

L’impegno economico statunitense nei confronti dei rifugiati è aumentato negli ultimi tempi anche per precise ragioni politiche: quando l’8 agosto 2008 il presidente Saakaashvilli  ordinò di bombardare Tskhinvali, la capitale dell’Ossezia del Sud e di occuparne il territorio, contava da un lato sull’effetto sorpresa. I capi di governo di quasi tutto il mondo, compreso Putin – la Russia è sempre stata la storica alleata delle due repubbliche indipendentiste  –  erano in Cina per l’inaugurazione delle Olimpiadi ed era certo di poter contare sull’appoggio dell’Occidente ed in particolare degli USA, appoggio che, sul terreno militare, non si è invece realizzato.

La guerra si concluse in tutt’altro modo: in pochi giorni l’attacco georgiano fu respinto dall’Ossezia del Sud e dalle armate russe che arrivarono a poche decine di kilometri dalla capitale della Georgia. La determinazione della risposta russa arrivava poco tempo dopo che gli USA e diversi paesi europei avevano riconosciuto l’indipendenza del  Kosovo dalla Serbia  in forte contrasto con la Russia, che da sempre appoggiava Belgrado.

Se quindi la sconfitta del 2008 ha contribuito fortemente a sviluppare ulteriormente un sentimento critico verso Mosca, contemporaneamente è salita la sfiducia verso gli USA.  Il rapporto con la Russia continua ancora oggi ad essere complesso e ambivalente.

E’ indubbio che i governi georgiani oggi guardino verso l’Occidente: alcuni dei massimi dirigenti politici vorrebbero addirittura entrare nell’UE  e nella NATO, amplificando così un sentimento antirusso presente da secoli e intrecciato con la lotta per l’indipendenza; è però altrettanto vero che la Georgia e la Russia hanno in comune la medesima religione, il cristianesimo, in una regione dominata dall’Islam e in un paese dove circa 1/8 della popolazione è costituito da islamici. Costoro  in grande maggioranza  sono contadini, vivono fra di loro nei villaggi in campagna e formalmente godono degli stessi diritti di tutti i georgiani,  anche se aumentano i gruppi nazionalisti che cercano di impedire con la forza la costruzione di nuove moschee e di nuovi insediamenti. L’identità religiosa in Georgia  è indissolubilmente intrecciata  con l’identità nazionale.

Il complesso rapporto con la Russia

Paradossalmente non sono pochi i georgiani che aspirano ad entrare nella NATO come effetto protettivo/dissuasivo nei confronti della Russia e allo stesso tempo guardano alla stessa Russia come potenziale protettrice verso l’avanzare dell’Islam. Situazione che può appunto apparire paradossale, ma che ben illustra la difficoltà, evidente in tutta la millenaria storia georgiana, a mantenere la propria indipendenza per un paese con una popolazione esigua e collocato in una zona del globo strategica un tempo  per le vie commerciali di passaggio tra Asia ed Europa ed ora per il percorso dell’oleodotto che arriva dall’Azerbaigian e transita in Georgia, per poi dirigersi verso la Turchia e quindi i paesi europei. tagliando fuori la Russia.

Nella scena politica nazionale i partiti filorussi non hanno alcuna  influenza, ma a tutto il sistema politico è ben chiara l’opposizione della Russia all’eventuale entrata della Georgia nell’UE e nella NATO; questa consapevolezza  per ora frena qualunque accelerazione in tale direzione, ammesso che l’UE sia interessata all’entrata di questo paese, cosa ad oggi decisamente non realistica. Inoltre non va dimenticato che molti georgiani lavorano in Russia; vi sono interi villaggi costituiti quasi solo da donne e bambini, gli uomini sono tutti emigrati  e sono numerosissime le famiglie il cui bilancio dipende dalle rimesse di chi lavora nel potente paese confinante.

Nella scuole oggi s’insegnano sia il russo che l’inglese, anche se quest’ultimo continua a guadagnare posizioni; il russo è la lingua ufficiale per il mezzo milione di azeri, per gli armeni e per gli oltre 100.000 russi che vivono nel paese e non parlano la lingua nazionale; un terzo di chi oggi risiede in Georgia non è di origine georgiana. Nonostante tutti capiscano il russo, dalla guerra del 2008 è vietato sulle televisioni nazionali parlare tale lingua e sia i film che eventuali discorsi  vengono sottotitolati in georgiano.

A complicare ulteriormente la situazione resta sullo sfondo, oggi con meno impatto, ma con una presenza ancora forte negli anziani, la figura di Stalin, il georgiano che arrivò alla guida dell’Unione Sovietica:  elemento di grande orgoglio nazionale, ma anche di legame con la storia moscovita ed in particolare con la vittoria dell’URSS staliniana contro il nazismo. Nell’ultimo anno l’amministrazione di Gori, la città natale di Stalin, ha deciso di ricollocare la statua del suo concittadino, rimossa su ordine  dal governo  nazionale nel 2010 contro la volontà di gran parte delle popolazione; nel museo a lui dedicato sono state chiuse da pochi mesi due sale al piano terra che, aggiunte negli ultimi anni, illustravano i gulag e gli eccidi ordinati dal capo dell’URSS. A Tbilisi è invece ampiamente pubblicizzata una mostra sull’occupazione sovietica della Georgia. Impostazioni  differenti  che non si limitano all’ambito culturale, ma che riflettono differenti modi di giudicare e raccontare il proprio passato diffusi tra la popolazione.