Una recente immagine di Chomsky (foto Pressenza di Isabel Garcia)

di Noam Chomsky e Mohammad Attar

Nel corso della sua recente visita a Beirut il pensatore e filosofo Noam Chomsky ha incontrato un gruppo di attivisti dei media, volontari e singoli individui indipendenti siriani attivi nelle sfere culturali ed economiche. Chomsky ha chiarito di essere venuto per ascoltarli, per prestare orecchio alle loro diverse idee sulla situazione attuale in Siria.

Dopo l’incontro ho avuto l’onore di intervistarlo. All’inizio della nostra discussione ho affermato che la mia motivazione nel parlare con lui era di incoraggiarlo ad aprirsi ai siriani, a confrontarsi direttamente con loro sulle sue valutazioni della situazione nel loro paese, facendo seguito a una serie di interviste a giornali libanesi in cui aveva affrontato il tema attraverso il filtro delle priorità e dei pregiudizi politici di quegli stessi giornali. Tuttavia Chomksy, ora ottantenne, ha gentilmente insistito di essere qui per familiarizzarsi da vicino con il problema, piuttosto che per proporre sue conclusioni già completamente raggiunte.

La discussione ha spaziato sulle posizioni sottoscritte da Chomsky in precedenti interviste a proposito della sua visione della complessa situazione in Siria, del coinvolgimento di Hezbollah, delle posizioni statunitense e israeliana nei confronti della Siria rivoluzionaria e di altri temi collegati.

Sul coinvolgimento di Hezbollah e la politica iraniana

Qual è la sua idea sul coinvolgimento non mascherato di Hezbollah in prima linea in Siria a sostegno delle forze del regime? Lei ha fatto delle dichiarazioni in cui ha detto di poter comprendere tale intervento.

C’è una differenza tra comprendere i motivi dell’intervento e scusarlo. Per essere chiaro: niente può giustificare il coinvolgimento di Hezbollah. Se mi fosse chiesto cosa credono allora offrirei la mia opinione a proposito di cosa credono, ma se mi si chiedesse cosa penso della loro decisione allora la mia idea, semplicemente e chiaramente, è che non dovevano intervenire. Ma io non sono il loro consigliere spirituale e non hanno chiesto il mio consiglio.

Tornando alla mia idea su ciò che credono: se non fossero intervenuti ad al-Quseir allora sarebbe rimasta nelle mani dei combattenti dell’opposizione e ciò, naturalmente, sarebbe stato una materializzazione del declino del potere del regime siriano e dunque una limitazione alle forniture che arrivano loro [a Hezbollah – n.d.t.] dall’Iran. Inoltre sarebbe stato un simbolo del graduale declino della loro forza militare in confronto con Israele, che rappresenta il loro fondamentale pretesto per restare armati. Di nuovo, la mia scelta – che chiaramente non è la scelta che loro hanno deciso – sarebbe stata di non intervenire in Siria lavorando nel frattempo per potenziare il loro ruolo di forza economica e sociale nel Libano, approcciando in tal modo il concetto di forza di deterrenza da un angolo diverso (un concetto che, secondo me, non significativo quanto molti tuttora presumono). Francamente, si presta scarsa attenzione a ciò che avviene all’interno di Israele e questo è un grosso errore. Si afferma che la guerra del 2006 ha insegnato agli israeliani che qualsiasi futuro conflitto in Libano non dovrebbe essere basato su uno scontro terrestre prolungato con Hezbollah – che possiede un formidabile arsenale di missili – bensì piuttosto su un attacco rapido del tipo blitzkrieg mirato alla distruzione totale … forse a distruggere il Libano in due giorni. Il deterrente militare di Hezbollah non fermerebbe questo.

Crede nella possibilità di un qualche cambiamento evidente nella politica estera dell’Iran dopo l’elezione di Hassan Rohani?

Rohani dispone di una gamma limitata di scelte, considerata l’autorità del Velayat-e Faqih, ma è importante citare qui che la politica estera iraniana ha subito alcune modifiche negli anni recenti. Durante il governo di Khatami c’è stata una possibilità di avvicinamento all’occidente, se quest’ultimo avesse collaborato. E, per inciso, un accordo analogo sul problema del nucleare avrebbe potuto essere realizzato nel 2010 se gli Stati Uniti non lo avessero respinto all’ultimo momento, nonostante l’Iran avesse accettato la proposta avanzata dallo stesso Obama e appoggiata da Brasile e Turchia, che avrebbe visto l’uranio iraniano a basso arricchimento immagazzinato in Turchia in cambio della consegna all’Iran di uranio a forte arricchimento da parte dell’Europa, un cambiamento di atteggiamento che ha irritato il Brasile all’epoca. Parlando in generale credo che ci siano vie per ridurre la gravità dello scontro tra l’Iran e l’occidente, ma sono condizionate da due fattori: convincere le autorità religiose iraniane e l’amministrazione statunitense.

L’Iran sta sfruttando la situazione siriana come un asso nella manica nei suoi negoziati con l’occidente sul nucleare?

Non lo penso. Credo davvero che la crisi siriana sia un fardello per l’Iran. Naturalmente non vuole che il regime cada: è il suo ultimo alleato nella regione. Disgraziatamente la regione, nel suo complesso, si sta avviando a una crescente polarizzazione tra sciiti e sunniti e dunque è probabile che l’Iran continuerà a sostenere il regime siriano sino alla fine.

 

Israele, Stati Uniti e atteggiamenti nei confronti della rivoluzione siriana

Secondo lei, qual è la vera posizione di Israele a proposito della rivoluzione siriana?

Israele non ha fatto nulla per indicare che sta cercando di abbattere il regime di Assad. Ci sono crescenti affermazioni che l’occidente intende fornire armi all’opposizione. Penso che ciò sia molto fuorviante. La sostanza della questione è che se gli Stati Uniti e Israele avessero interesse ad abbattere il regime siriano avrebbero a disposizione una quantità di misure da attuare prima di arrivare alla scelta di fornire armi. Tutte queste altre opzioni comprendono, ad esempio, l’incoraggiamento statunitense a che Israele mobiliti le proprie forze lungo il confine settentrionale, una mossa che non causerebbe obiezioni da parte della comunità internazionale e che costringerebbe il regime a ritirare le proprie forze da numerose posizioni al fronte e allevierebbe la pressione sull’opposizione. Ma questo non è successo, e non succederà, fintanto che Stati Uniti e Israele resteranno indisponibili ad abbattere il regime di Assad. Il regime può non piacere loro ma ciò nonostante è un regime che è molto abile nell’accondiscendere alle loro richieste e qualsiasi alternativa ignota potrebbe dimostrarsi peggiore da questo punto di vista. Molto meglio, allora, stare a guardare mentre i siriani si combattono e si distruggono a vicenda.

Il suo discorso afferma senza ambiguità che gli Stati Uniti e Israele non hanno alcun desiderio di veder cadere il regime e che le loro azioni sono determinate dal principio “meglio il male che si conosce”. Come spiega una tesi opposta, diffusa da analisti e intellettuali, specialmente nei circoli della sinistra in Europa, negli Stati Uniti e nel mondo arabo, basata sull’assunto di un complotto statunitense/israeliano/imperialista? Per alcuni la rivoluzione in Siria è stata una cospirazione sin dall’inizio. Per altri è stata dirottata dalla cospirazione.

Per molto tempo il mondo arabo e altri luoghi sono stati sede di storie e illusioni circa la potenza soprannaturale degli Stati Uniti, che controllano ogni cosa attraverso cospirazioni e complotti complessi. In questa visione del mondo tutto ciò che avviene può essere spiegato in termini di cospirazioni imperialiste. E’ un errore. Indubbiamente gli Stati Uniti sono tuttora una grande potenza e sono capaci di influenzare gli eventi, ma non sono sempre in grado di manipolarli mediante cospirazioni complesse: ciò supera davvero le loro capacità. Naturalmente gli statunitensi a volte effettivamente provano a farlo, ma falliscono, anche. Quello che è successo in Siria non è oltre la nostra comprensione: è cominciato come un movimento di protesta popolare e democratico che rivendicava riforme democratiche, ma invece di rispondergli in modo costruttivo, positivo, Assad ha reagito con una repressione violenta. Il normale esito di un simile corso d’azione è o una repressione riuscita delle proteste o, in caso contrario, la loro evoluzione e militarizzazione, e questo è ciò che è successo in Siria. Quando un movimento di protesta entra in questa fase, assistiamo a dinamiche in gioco: di solito l’ascesa alla guida degli elementi più estremisti e brutali.

La scelta tra armare l’opposizione e negoziare

Lei ha una posizione cauta sulle recenti dichiarazioni dell’occidente a proposito di armare i combattenti dell’opposizione. Perché?

E’ collegata a una valutazione delle conseguenze. Ancora una volta, io credo che ci siano vie più semplici che l’occidente può seguire prima di fare il salto agli aiuti militari; alcune di esse le ho appena citate ma comprendono anche l’offerta di livelli accresciuti di aiuti umanitari. Se siamo seri, dobbiamo guardare alle conseguenze di un’azione simile. Quale sarà l’esito a livello umanitario? La mia domanda è pratica, non etica. La mia risposta non sarebbe dissimile dalle risposte offerte da altri osservatori che seguono la situazione da vicino in Siria, come Patrick Cockburn, che ha affermato che un passo simile non farebbe che intensificare lo scontro militare conservando lo stesso equilibrio tra gli schieramenti, perché gli alleati del regime – Russia, Iran e Iraq – continueranno a fare quello che hanno sempre fatto e forniranno al regime armamenti più avanzati.

Questa analisi si basa normalmente sul presupposto che la Russia fornirà al regime armi avanzate, il che potrebbe sconvolgere l’equilibrio (non dichiarato) di forza con Israele. Pensa che la Russia, pur sostenitrice del regime siriano, preferirebbe non compiere passi che possano minacciare la sicurezza di Israele?

Può fornire alla Siria armamenti avanzati senza giungere al punto di minacciare realmente Israele. Non dimentichiamo che il regime potrebbe star usando armi chimiche. C’è ancora molta incertezza oggi su questo, ma è una possibilità che si avvererà inevitabilmente in futuro.

Lei considera i negoziati, accompagnati da pressioni politiche e diplomatiche, come il modo migliore per costringere il regime a fare concessioni. Ma tra i siriani c’è una convinzione comunemente sostenuta che il regime non farà mai nessuna concessione seria né negozierà con l’opposizione, anche se i rivoluzionari si trovassero sugli scalini del palazzo presidenziale. Gheddafi è un esempio recente di tale atteggiamento.

Posso essere d’accordo con lei su questo. Tuttavia per costringere il regime a negoziare si deve cambiare la situazione in modo che sia costretto ad accettare. Un modo per farlo è che Ginevra – con il consenso delle maggiori potenze – crei una situazione in cui il regime sia incoraggiato (o piuttosto costretto, cosa che possono ottenere se davvero vogliono) ad accettare una risoluzione basata su un periodo transitorio che spiani la via alle dimissioni finali di Assad.  

Tuttavia c’è preoccupazione che continuare a non armare l’opposizione in modo organizzato ed entro una cornice chiara si traduca nel continuo controllo di certi individui e di certe autorità religiose nel Golfo sulla fornitura di armi a gruppi limitati – gli elementi più estremisti – nei ranghi dell’opposizione armata. Ciò implicherebbe la continua emarginazione dei combattenti dell’opposizione moderati.

La sua domanda riguarda scelte tattiche estremamente limitate. Tutti vogliamo costringere Assad al tavolo dei negoziati e, da lì, a dimettersi, ma la domanda e come ottenere ciò. Il primo modo per farlo è fornire armi all’opposizione. Questa mossa con tutta probabilità produrrebbe un’intensificazione del conflitto armato e aprirebbe la porta a un ulteriore aggiornamento e ampliamento [dei propri armamenti – n.d.t.] da parte del regime, portando a maggiori distruzioni e a una più lunga permanenza del regime. Il secondo approccio consiste nel recarsi a Ginevra con la cooperazione delle maggiori potenze, Russia compresa, e costringere il regime ad accettare una tregua. Queste sono le opzioni di cui disponiamo.

Ma crede che si potrà far accettare il cambiamento al regime mediante negoziati?

Onestamente e obiettivamente riconosco che entrambe le opzioni hanno solo un’esigua probabilità di riuscita. Ma si deve fare una scelta. Quale via intraprendere? Nessuna delle due opzioni è l’ideale ma, di nuovo, si deve pensare in termini di ciò che è effettivamente possibile. Io credo che si dovrebbe scegliere per prima la via del negoziato e, nel caso fallisse, passare poi alla seconda opzione diventa più accettabile.

Ma il tempo si misura in vite siriane. Stiamo parlando di recarsi a Ginevra sullo sfondo della situazione attuale in Siria e di impegnarsi in una lunga serie di negoziati.

Il ragionamento opposto direbbe che molte vite siriano saranno perse scegliendo l’altra opzione.

C’è la difficoltà di convincere i vasti strati della popolazione siriana che sono stati costretti a prendere le armi che la fornitura di armi dall’estero non farà che peggiorare le cose, con il regime che riceve massicci e continui aiuti dai suoi alleati. Pensa che la vera sfida non stia tanto nell’accettare queste armi quanto nel bloccare chi fornisce le armi per guadagnare sostegno ai propri programmi?

Ancora una volta la domanda che mi turba è: quali sarebbero le conseguenze del compiere  un passo simile? Non è solo questione di aumentare le perdite e le distruzioni ma di radicare l’attuale rapporto di forza militare ad alto livello in Siria, con sempre più armi disponibili, e tutto ciò che implicherebbe per la Siria. Quanto alla sua osservazione sui programmi, è tutto un altro problema. Cosa aspettarsi da un paese come l’Arabia Saudita, ad esempio?

Nonviolenza, militarizzazione e solidarietà globale ai rivoluzionari siriani.

I siriani oggi continuano a essere incolpati perché la resistenza armata ha un ruolo centrale in una rivoluzione le cui proteste erano pacifiche e sono rimaste tali nei primi mesi. Pensa che i siriani avessero scelte diverse ma se le siano lasciate sfuggire?

Non penso che i siriani abbiano compiuto una scelta. E’ successo in seguito alla reazione repressiva del regime di Assad. I siriani potevano arrendersi o prendere le armi. Incolparli è simile a dire che i vietnamiti fecero un errore reagendo con la forza quando il governo sostenuto dagli Stati Uniti cominciò ad attuare massacri. Certo, i vietnamiti fecero la scelta di armarsi, ma l’alternativa era accettare altri massacri. Non è una critica seria.

I siriani provano sentimenti di amarezza per la mancanza di un’effettiva solidarietà con il loro movimento. Non parlo qui dei governi e dei politici, ma dei cittadini comuni, degli attivisti e delle organizzazioni della società civile. Non si tratta soltanto di una conseguenza della situazione attuale; risale a periodo iniziale, quando le proteste erano interamente pacifiche e hanno continuato a esserlo per grosso modo i primi dieci mesi. Come lo spiega?

Non è l’impressione che ho io, guardando alle cose dall’interno del movimento attivista in occidente. Credo ci sia solidarietà nei confronti dei siriani. Ma come si fa a trasformare la solidarietà in azione? E’ un’altra faccenda. Supponga di essere un attivista che vive a New York: come potrebbe dimostrare la sua solidarietà? Che cosa farebbe?

Forse organizzare dimostrazioni settimanali?

Dimostrazioni ce ne sono state. Non molte, forse. Ma alla fine le dimostrazioni hanno un’efficacia limitata.

Ma nel giro di giorni dall’inizio del movimento popolare a Piazza Taksim e nonostante il fatto che stiamo parlando di contesti del tutto diversi, abbiamo assistito a dimostrazioni di solidarietà con i turchi in tutto il mondo. In Siria abbiamo fortemente desiderato vedere la stessa cosa.

Secondo me è da ricondurre alla capacità delle comunità turche in occidente di riunire e mobilitare, una capacità che le comunità siriane non hanno, a quanto ne so. Ma riaffermo che ritengo che la Siria abbia ricevuto solidarietà, proprio come la Tunisia e l’Egitto prima di essa.

Parlando dell’Egitto, c’è stata una solidarietà diffusa – le cui cause sono ovvie – nei confronti dei dimostranti di Piazza Tahrir. I sentimenti di amarezza dei siriani hanno origine dalla sensazione che fosse chiesto loro di produrre una seconda Piazza Tharir se volevano ottenere lo stesso sostegno, anche se non hanno lasciato nulla d’intentato e molte vite sono andate perdute per ottenere solo ciò.

Assolutamente. E’ stato loro impedito dall’uso eccessivo della forza. Concordo con lei che Piazza Tahrir ha ricevuto un livello straordinario di attenzione, in parte dovuta agli attivisti che hanno lavorato così intensamente per collegarla al resto del mondo. La solidarietà tra i dimostranti di Piazza Tahrir e i loro omologhi nel Wisconsin, ad esempio, ha avuto un impatto profondo sul pubblico statunitense. Comunque un ritardo nel mostrare solidarietà e sostegno si è avuto molte volte in passato. Kennedy invase il Vietnam del Sud nel 1961. I suoi aerei iniziarono i bombardamenti da tale data. Ci vollero tuttavia cinque anni perché si tenesse la prima protesta organizzata contro l’intervento statunitense.

Ma stiamo parlando dell’era dei nuovi media, della moderna tecnologia delle comunicazioni  della possibilità di diffondere liberamente immagini …

Dal Vietnam ci arrivavano corrispondenti e articoli. Non fu quello l’ostacolo principale, secondo me. Fondamentalmente una volontà popolare di sostenere il movimento non era ancora in essere. Il sostegno e la solidarietà efficace richiedono tempo, sforzi e organizzazione e forse è questo che manca. Guardi alla Palestina: abbiamo una tragedia che si consuma da decenni e non credo ci sia solidarietà sufficiente al riguardo. Le cose di recente sono migliorate, forse, e abbiamo cominciato a vedere all’opera una maggiore efficacia, ma per anni io stesso ho avuto bisogno della protezione della polizia ogni volta che sostenevo o organizzavo un’iniziativa di solidarietà con la Palestina.

Il destino di Bashar Al Assad e il futuro della Siria

Quale pensa sarà il destino di Bashar Al Assad?

Il suo destino sarà di cadere, in un modo o nell’altro. Ma non le mentirò: credo che le conseguenze della situazione attuale possano essere terribili. La Siria potrebbe finire a pezzi. I curdi potrebbero conquistare l’indipendenza in alcune delle loro aree grazie a qualche genere di rapporto con il Kurdistan iracheno e forse in coordinamento con la Turchia, mentre i restanti territori siriani potrebbero dividersi in due, con Assad che governa una parte di ciò che resta. Questo è orribile e molto doloroso per il popolo siriano e la Siria, ma sfortunatamente è il modo in cui vanno le cose al momento.

Ma lei pensa che gli stati confinanti sarebbero felici di veder prendere forma una mappa simile, con tutta l’instabilità che tali cambiamenti potrebbero produrre ai confini del paese?

Potrebbe non piacere loro, ma quali scelte hanno? Si deve decidere tra le scelte a disposizione e non tra quelle che si desiderano. La verità al riguardo è questa. Sospetto che gli Stati Uniti potrebbero accettarlo e anche Israele sarebbe parecchio felice, perché allora la Siria sarebbe spezzata e frammentata come il resto del mondo arabo.

E per quel che riguarda la sua ossessione per la sicurezza del confine settentrionale?

Non ci sarebbero grandi cambiamenti. Assad continuerebbe a controllare quel settore. Nel complesso non ci sarà alcuna minaccia seria alla sicurezza di Israele perché possiede una considerevole superiorità militare rispetto a tutti i suoi vicini, quale che sia l’esito finale. A volte la priorità attribuita da Israele alla sicurezza è sopravvalutata. Israele ha rifiutato molte offerte di garantire la sua sicurezza in cambio di trattati di pace basati su risoluzioni dell’ONU. Alla sicurezza preferisce l’espansione: è questa la sua politica.

C’è un punto sconcertante relativamente alla rivoluzione siriana. Singoli e gruppi appartenenti all’estrema sinistra in Europa, nel mondo arabo e in altre regioni del globo, hanno mostrato ostilità nei confronti della rivoluzione considerandola parte di un complotto statunitense e imperialista. L’ostilità viene anche dall’estrema destra, che la considera come una minaccia estremista all’esistenza di comunità minoritarie e cristiane in particolare. Abbiamo sentito dichiarazioni simili da parte dell’estrema destra francese e di Nick Griffin, leader del Partito Nazionale Britannico, estremista, che ha visitato Damasco, difendendo Bashar Al Assad. Come interpreta questo fenomeno?

Semplicemente li ignoro. Sono insignificanti. Rappresentano gruppi che non possono essere raggiunti e con i quali non è possibile comunicare. Non c’è bisogno di preoccuparsi troppo dell’incapacità di convincere gruppi marginali che, innanzitutto, è difficile raggiungere. Ci sono gruppi molto più importanti, attivi e influenti sul processo decisionale che andrebbero raggiunti per primi.

In una conversazione da lei registrata nei primi mesi della rivoluzione con il martire Basel Shehade lei ha detto di non avere consigli o ricette preconfezionate da offrire al popolo siriano nella sua difficile situazione. E’ cambiato qualcosa?

Onestamente, non è cambiato nulla. I siriani stanno affrontando una situazione difficile e complessa e certamente hanno un’idea di ciò che dovrebbero fare migliore di quella che ho io. Mi sono rifiutato di dare consigli in passato, a proposito del Vietnam, del Nicaragua o di qualsiasi altro posto. Ma forse dire che i siriani devono valutare le scelte che hanno a disposizione e considerare le conseguenze che seguono a ciascuna. Si devono affrontare i fatti reali e non permanere in un modo costruito con la nostra immaginazione, dicendo “voglio questo” e “non voglio quello”.

Tutti i movimenti che alla fine hanno avuto successo hanno fatto certe concessioni in certi momenti, sulla base della loro lettura della realtà e di una valutazione delle altre scelte disponibili. Anche il movimento sionista si impegnò nel rapporto della Commissione Peel nel 1937, come la miglior soluzione disponibile, e poi proseguì da lì. I vietnamiti accettarono gli Accordi di Ginevra nel 1954, in effetti accettando la divisione. L’alternativa sarebbe stata l’uso di armi nucleari contro di loro o la sconfitta militare. Accettarono, così poterono restare in gioco e secondo me fecero bene ad accettare.

E’ difficile fare progressi nel mondo reale senza scendere a vari compromessi. Non ho altro consiglio che dire: non lasciate che i vostri desideri cancellino interamente i fatti. Siate consapevoli dei fatti. Viviamo nel mondo reale, con tutti i suoi orrori e le sue brutture, e dobbiamo venirci a patti e prendere decisioni al suo interno.

Lei crede che un processo negoziale potrebbe alla fine sfociare in Al Assad come parte di una Siria futura, quale che sia la cornice della soluzione?

Una piccola speranza (anche se debole) è incentrata su negoziati con i sostenitori di Assad – la Russia in particolare – affinché facciano quello di affermano che faranno e costringendo Assad ad accettare di partecipare a un governo di transizione in preparazione con poteri limitati, che apra la via alla sua partenza. Forse è una speranza sottile, ma non impossibile.  Se lei mi chiedesse quali sono le probabilità che abbia successo non avrei una risposta, ma sembra davvero non impossibile.

Questa intervista ha avuto luogo il 16/6/2013 ed è stata realizzata esclusivamente per il sito web di The Republic, il giornale del Comitato Locale di Coordinamento (LCC) e per l’Heinrich Boll Stiftung (hbs). Ringraziamenti speciali al dottor Fawaz Traboulsi per aver reso possibile questa intervista.

Noam Chomsky è un linguista, filosofo, autore e attivista politico statunitense. E’ professore (emerito)  presso il Massachusetts Institute of Technology (MIT) e famoso intellettuale di sinistra. Ha recentemente pubblicato il libro “Occupy: Reflections on Class War, Rebellion e Repression” [Occupy: riflessioni su guerra di classe, ribellione e repressione].

Mohammad Al Attar è un commediografo e professionista di teatro. Si è laureato di Applicazioni Teatrali alla Goldsmiths University di Londra. La sua opera teatrale “Withdrawal” [ritiro] è stata rappresentata a Londra, New York, Nuova Delhi, Berlino, Tunisi e Beirut. La sua commedia “Online” ha avuto la sua prima a Royal Court Theatre di Londra. La sua opera più recente “Look at the Camera” [Guarda nell’obiettivo] ha avuto la sua prima a Bruxelles e a Berlino. Al Attar ha pubblicato numerosi testi per rappresentazioni e contributi critici in numerosi giornali e riviste arabe.

 

Fonte: http://www.zcommunications.org/interview-on-the-syrian-revolution-by-noam-chomsky

Originale: Heinrich Boll Stiftung

Traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2013 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0