Abbiamo chiesto a Claudio Rocchi, musicista e profondo conoscitore dell’India di scrivere qualcosa sulla partenza di Ravi Shankar. Ci ha mandato questa meravigliosa testimonianza e riflessione.
Ricordo distintamente la sensazione provata la prima volta che ascoltai il suono di un sitar, il suo. Uno squarcio da altri mondi. Veramente psichedelico. E che dire delle declinazioni esperienzali delle armoniche “simpatiche” in corso di “viaggio”? Straripanti. Disegnatrici esponenziali di mondi paralleli.
L’India si è avvicinata per milioni di occidentali, tra i 60 e i 70, grazie ad alcuni filosofi, e Shankar certo siede “a gambe incrociate” tra quelli.
Milano, teatro Lirico, inverno 1968. Siedo in un palco laterale e davanti a me in platea vedo il Maurizio Vandelli dei tempi d’oro dell’Equipe 84 in giacca “paisley” all’indiana con fanciulla “in regola” a fianco.
E’ per me l’unica distrazione in un concerto perfetto di circa due ore.
Shankar siede con a fianco Allah Raka, fido tablista padre di Zakhir Hussain; con loro una donna alla tampoura. In proscenio un solo stick di incenso di prima qualità è sufficiente a inebriare di insolito esotismo olfattivo una strana platea stracolma di borghesia milanese doc. Cascate di note si sposano a nozze alchemiche.
In camerino, dopo il concerto, un po’ di frutta, incenso, cuscini a terra per le sedute dei musicisti alla loro maniera. Mi sono portato una muta di corde del mio sitar e un pennarello per l’autografo. Il Maestro le guarda e ride come solo gli indiani sanno fare: «These are no good – dice – queste non sono buone. Are you a musician? – sei un musicista? -». «A bass player, un bassista» rispondo.  Un’altra risata di gusto all’indiana e aggiunge quasi alle lacrime: «Poor guy, only four strings for you; eighteen for me – povero, hai solo quattro corde a disposizione; io diciotto -».
Non farà l’autografo, con il mio pennarello nero disegna l’Om sanscrito e recita il Rgveda I,164,39 « ṛco akṣare parame vyoman yasmin/ devā adhi viśve niṣeduḥ yastan/ na veda kiṃ ṛcā kariṣyati/ ya it tad vidusta ime samāsate ».  Chi non conosce l’eterna sillaba, il punto Supremo dimora degli Dei, cosa ha che fare con i Veda? Solo chi la conosce può sedersi riunito in pace. Quando, a metà aforisma, mi aggiungo all’unisono recitandolo con lui sino alla fine, lo vedo trasalire illuminato. Mani giunte al terzo occhio accenna un inchino reverente. «Oh, I see: you have far more then four strings – capisco: tu hai ben più di quattro corde -».
Shankar, è a fianco di George Harrison, quando scrive Living in a material world, Wonderwall; producono insieme
lo splendido Chants of India, è l’anima che già in Revolver evoca indirettamnete la splendida within you, without you. Il loro incontro avvicina l’India ai giovani popoli d’Occidente. Segnali precisi tra raga e rock & roll, Veda e Melody Maker.
Un grande, influente, oceanico musicista Indiano. Un’icona generazionale. Un faro. Pietra miliare sulla via delle Indie. Imprescindibile.