Fernando Arellano Ortiz

Si tratta non di un cambiamento di sistema, spiega la filosofa argentina, ma piuttosto di una sfida ben più ambiziosa che ha per obiettivo un cambiamento sostanziale del nostro sistema di vita. Questo “sarà possibile solo grazie alla costante trasformazione dei soggetti di tale cambiamento” che vengono a costruirsi “durante le lotte e le resistenze concrete non solo a livello locale e territoriale, ma anche a livello mondiale”.

Benché questo processo richieda una lunga transizione, Rauber ritiene che “la costruzione di una civiltà che vada oltre quanto realizzato finora non deve essere lasciato a carico di una manciata di persone o di qualche eletto, ma deve invece poggiare sulla partecipazione dell’umanità tutta, o almeno della maggioranza assoluta; deve derivare dalla concatenazione di processi storici concreti, in modo da aprire pian piano i canali di una partecipazione a diversi livelli, creando così e dando valore, nello stesso tempo, a nuove pratiche che permettano di stabilire relazioni umane in campo politico ma anche in quello sociale, economico e culturale. In questo senso, gli attuali percorsi delle lotte sociali e i tentativi di vari governi di incoraggiare una trasformazione partendo dalla base sono laboratori per un nuovo mondo, processi che possono aiutarci ad acquisire insieme maggiori saperi se siamo capaci di dare seguito a queste azioni e di appropriarci di queste esperienze pur restando critici. Ecco perché queste esperienze costituiscono allo stesso tempo fonte di ispirazione per la vita.

E la nostra via maestra consiste proprio nel far scattare questi movimenti e nel riflettere su di essi.

In collaborazione con l’Osservatorio sociopolitico latinoamericano di Buenos Aires, la sociologa sottolinea il potere trascinatore dei movimenti sociali in questo inizio del XXI secolo, nel quale la forza motrice è la lotta per la vita. “Essi – afferma la Rauber – sono ben coscienti di quanto, allo stato attuale delle cose, restare in una logica di produzione e di accumulazione di capitale rappresenti una minaccia per l’intera umanità. E questa minaccia si concretizza e si esprime nell’opposizione antagonistica tra vita e morte, così come incarna il problema fondamentale della nostra epoca oltre a riassumere e articolare nuove contrapposizioni sociali”.

Isabel Rauber è dottore in filosofia all’Università de L’Avana. Dirige la rivista “Pasado y Presente XXI”, e coordina il gruppo di riverca omonimo. Inoltre, è ricercatrice aggiunta presso il Centro di studi americani, coordinatrice del Laboratorio de Pensamiento Argentino del Centro culturale Caras y Caretas di Buenos Aires, docente all’Università Nazionale di Lanus, docente aggiunto presso l’Università de L’Avana, membro del Comitato scientifico di consulenza della Centrale dei lavoratori di Cuba (CTC) e membro del Forum del Terzo Mondo e del Forum mondiale per le alternative. E’ anche ricercatrice sui temi dell’uguaglianza di genere, sulla povertà urbana e sui processi di trasformazione sociale presso l’UNESCO, e consigliera presso la Centrale dei Lavoratori Argentini (CTA).

Si è specializzata in sociologia politica, analisi congiunturali, memoria storica, saggi filosofici e studi antropologici dei movimenti sociali, indigeni, di quartiere, sindacali e di uguaglianza di genere. Ha pubblicato numerosi articoli e resoconti, e più di diciotto opere in Sudamerica.

Inoltre, è ricercatrice invitata presso il Centro Tricontinentale (CETRI) di Louvain-la-Neuve, coopera con l’Istituto universitario di studi sullo sviluppo di Ginevra, e dirige il Programma di formazione sociopolitica a distanza (PROFOSD). Tra i suoi lavori più recenti, figurano: Dos pasos adelante, uno atrás. Lógicas de superación de la civilización regida por el capital (2010) [Due passi avanti, uno indietro. Strategie per il superamento della civilizzazione gestita dal capitale]; Cayo Hueso, estampas del barrio (2010) [Cayo Hueso, ritratto di un quartiere]; Miradas desde abajo (2008) [Sguardi verso il basso]; Sujetos políticos (2006) [Temi politici]; Movimiento social y repercusiones políticas, articulaciones (2004) [Movimento sociale e ripercussioni politiche, articolazioni].

Ha consacrato il proprio cammino accademico e di ricerca alla sistematizzazione e concettualizzazione delle esperienze di movimenti sociali e indigeni in Sudamerica, per cercare di costruire una civiltà partendo dal basso.

**L’umanità ha bisogno di strumenti culturali**

• *Nel suo libro “Dos pasos adelante, uno atràs” (Due passi avanti, uno indietro), lei sostiene che in questa crisi di civiltà legata al capitalismo sono insite le condizioni per una transazione verso un cambiamento di sistema. Questa crisi capitalistica sarà dunque l’occasione per lanciare questo processo di trasformazione?*

• Ho smesso di parlare di cambiamento di sistema, per prendere in esame piuttosto un cambiamento di civiltà. Si potrebbe pensare che si tratta della stessa cosa, ma in realtà non è affatto così. Un cambiamento di civiltà presuppone la trasformazione delle logiche profonde che dominano la nostra cività presente, e se abbiamo appreso qualcosa dal socialismo del XX secolo è il fatto che esiste un’alternativa per superare il capitalismo: possiamo dire che è stato un fallimento o un successo nella misura in cui molte rivoluzioni hanno visto la luce ma sono poi rimaste prigioniere della logica della concorrenza economica propria del capitalismo. Si pensava che per fare una rivoluzione bisognava che lo Stato si impadronisse dei mezzi di produzione, riducendo così il potere delle personificazioni istituzionali; non si prendevano in considerazioni altri aspetti, non si teneva conto del fattore egemonico, non si aveva che una visione istituzionalista ed economicista del potere. Si credeva che ciò sarebbe bastato per la liberazione automatica dell’Uomo. Ma le cose non sono andate così, il risultato finale è stato che il cambio di proprietà non ha modificato la logica di fondo, ed è per questo che sono convinta che la questione non è il superamento del capitalismo, ma piuttosto della civilta del capitale in sé. La sfida è quindi ancora più rilevante. Viviamo in una società disumanizzata che incoraggia una considerevole alienazione degli esseri umani, visto che noi diventiamo sempre più oggetti di consumo. Viviamo sempre meno per noi stessi e sempre più per il mercato.

• *Ma questa logica ha toccato il fondo…*

• No, non tocca mai il fondo, scava sempre di più; è una spirale senza fine, un giorno dopo l’altro. L’essere umano è talmente alienato che continua ad auto-flagellarsi per rispondere a situazioni che sembrano normali, senza nemmeno porsi la questione del perché e del come. L’umanità non è in grado di rendersi conto di quello che sta succedendo, le guerre, la distruzione dell’ambiente, e così via, perché per rendersene conto dovrebbe avere degli strumenti culturali che non possiede. E quanti vogliono cambiare il mondo dovrebbero, piuttosto che scendere in piazza, cercare di svegliare le coscienze. Non voglio dire che è stupido scendere in piazza, a volte è necessario farlo, ma bisogna portare avanti la consolidazione del pensiero strategico, così come l’intende Paulo Freire, non imporre dei concetti ma cercare di analizzare e discutere di fatti reali.

Il problema dell’Uomo è che l’umanità non ha preso coscienza. Ecco perché dobbiamo trovare un nuovo modello di vita per tutte e per tutti, e questo non può avvenire per decreto: al contrario, bisogna costruirlo, e la costruzione del potere deve venire dal basso. In altre parole, dobbiamo riflettere e inventare un nuovo modello di produzione e di riproduzione, e si tratta di un processo molto lungo. Tuttavia, per poterlo fare, l’umanità deve anche conoscerne il perché.

• *Anche se il capitalismo non crollerà da solo, un suo modo di riprodursi non sono proprio le guerre e le crisi che esso stesso genera?*

• Certo, ma soprattutto perchè l’umanità continua a seguire i dictat del mercato. Quello di cui abbiamo bisogno è il superamento reale, storico e civilizzatore di questo modello; più che di azioni, abbiamo bisogno di costruire un nuovo modello di produzione e di riproduzione non solo economico ma anche culturale, nel rispetto della natura e dell’essere umano. Impiantare un sistema solidale non può essere fatto attraverso il mercato: ecco perché bisogna cominciare a rifiutare l’iperconsumismo in modo autonomo e cosciente, e questo è un processo che richiederà molti anni.

• *Per fare questo, abbiamo bisogno di un nuovo soggetto politico?*

• I soggetti, in politica, si creano pian piano. La prima persona che adotta una posizione critica non solo si trova già nel processo di cambiamento di civiltà, un processo di largo respiro, ma può anche dirci a che punto siamo. La presa di coscienza riguardo il rispetto della natura è un elemento di questo cambiamento, un’accumulazione che spesso produce un’esplosione e che spinge l’umanità ad evolversi. I governi popolari e le rivoluzioni popolari fanno parte di questo processo.

• *Lei parla di lotta politico-ideoligica in America Latina, del caso della rivoluzione cubana: quest’ultima costituisce un elemento di cambiamento che permetta di uscire dalla logica capitalista?*

• Io penso che quella cubana sia l’ultima rivoluzione appartenente alla tipologia del XX secolo. Dal punto di vista del modello paradigmatico in America Latina, la rivoluzione cubana è la prima e l’ultima del secolo passato, nella misura in cui essa passa attraverso l’appropriazione del potere, la statalizzazione, che però ha dovuto, in seguito, modificarsi per poter affrontare le condizioni attuali in quanto non più adatta al sistema mondiale. La rivoluzione cubana si ritrova costretta a discutere le realtà del mercato, considerare il dialogo internazionale, e di fronte alle contraddizioni con le quali non aveva dovuto confrontarsi nel periodo in cui apparteneva ancora al blocco socialista. Quel periodo è stato meraviglioso, nonostante i suoi difetti, ne ho fatto esperienza di persona e posso testimoniare cosa significhi vivere senza essere sottoposti alle leggi del mercato e del danaro. È una cosa meravigliosa, perché il dialogo tra le persone non è mediato dall’interesse. Ho avuto la fortuna di vivere quel momento storico, e ne rifarei l’esperienza sempre, perché se ne ho scorto le deficienze, ho visto anche l’iniezione di spiritualità. Inoltre, Cuba ha nel sangue il tema della liberazione, e vi si respira l’ideologia sviluppata da Josè Marti, il quale sostiene che per essere liberi bisogna avere cultura.

• *Tutto questo concorda col fatto che l’America Latina, con l’eccezione di qualche paese dell’America Centrale come Messico e Colombia, sta vivendo un periodo d’oro sul piano politico?*

• Io credo di sì, poiché mai prima d’ora vecchie parole d’ordine, come “integrazione”, sono state così pienamente attuate. Credo che siamo sulla strada giusta, stiamo capendo cosa c’è da fare, stiamo rimettendo in questione la logica del sistema e aprendo nuove vie, indipendentemente dal successo. Stiamo andando verso una razionalità diversa, e trionferemo quando il mondo sarà diverso. Non mi interessa sapere se i governi popolari attuali dell’America Latina saranno o no rieletti. Quello che mi interessa è sapere se sostengono e rafforzano il soggetto collettivo, e posso affermare che è proprio questo che fa ognuno di loro. In questo senso, la rivoluzione cubana ha sempre tenuto ben presente il tema della partecipazione del soggetto. Una partecipazione sui generis, visto che è organizzata verticalmente, ma ci si è comunque preoccupati di ascoltare le opinioni del popolo, ed è per questo che Cuba è a questo punto.

• *I movimenti sociali in America Latina hanno avuto un peso determinante nell’accesso al potere dei governi popolari?*

• Credo che i movimenti sociali abbiano avuto un ruolo fondamentale nelle lotte contro il neoliberalismo, che sono le lotte contro il sistema al momento in essere. Sono movimenti di resistenza per la vita. Questi ultimi trent’anni hanno visto emergere una nuova mentalità nei movimenti sociali, che hanno messo l’accento sulla difesa del diritto alla vita e non sulla fine dello sfruttamento, come era stato negli anni settanta. È evidente che la lotta per il diritto alla vita ingloba il concetto della fine dello sfruttamento, e questo conferisce a questi movimenti una nuova, forte dinamica e un aspetto politico molto serio che i partiti politici non sono in grado di modificare né di capire, poiché continuano ad essere ancorati all’idea che il problema sia il braccio di ferro elettorale, che rappresentano. In compenso, i movimenti sociali sono cresciuti e maturati con un’altra logica. Hanno capito che la vita va difesa in tutti i campi, e che questa difesa rappresenta il primo e ultimo atto politico della storia, cosa che i partiti politici non comprendono, tanto che a causa della loro ristrettezza mentale considerano che l’obiettivo da raggiungere sia la militanza nelle loro fila. Ecco perché si può affermare che i movimenti sociali hanno sottoscritto la strada dei governi popolari in quanto sono stati i protagonisti delle resistenze e delle lotte dei popoli. Inoltre, ci sono differenze nei vari processi che hanno ritmi, storie e dibattiti differenti, come è il caso per esempio dell’Ecuador e della Bolivia. Finché ci sono tensioni in questi processi politici, c’è dialogo, c’è dibattito.

• *In effetti, prendiamo il caso di Bolivia e Ecuador: c’è un permanente stato di tensione tra i governi di Morales e Correa a causa dei movimenti indigeni e sociali…*

• Sì, perché la costituzione del soggetto è permanente: fa parte del cammino, ed è per questo che è importante tener presente che l’aver messo in piedi un governo richiede, ora più che per il passato, d’essere sempre attivi nel dibattito della costruzione sociale, culturale, economica e politica. Bisogna includere tutti gli attori nel processo di cambiamento e di trasformazione che è, e sempre sarà, allo stesso tempo e in primo luogo, un processo di trasformazione. La costituzione di un nuovo governo popolare presuppone nuove interrelazioni sociali e la nascita di nuove contraddizioni, nuove conflittualità, nuove affinità e interazioni di forze e di interessi sociali, economici, culturali e politici in base alla nuova realtà politica e istituzionale. Tutto questo configura una nuova mappa sociopolitica che definisce nuovi compiti e nuove sfide per gli attori sociali, le cui matrici politiche e sociopolitiche sono chiaramente messe in discussione.

• *Lei ha sottolineato che la sinistra ha ora bisogno di una autotrasformazione simile a quella conosciuta dalla Chiesa Cattolica con il Concilio Vaticano II. Quale direzione deve prendere tale trasformazione?*

• Questo implica una mentalità molto aperta, sapersi costruire nonostante la congiuntura, poichè il soggetto non viene costruito solo durante gli avvenimenti. Bisogna andare più nel profondo, il politico e l’intellettuale sono elementi esterni. Bisogna stare attenti alle contraddizioni e alle modifiche. Per questo dico che la sinistra ha bisogno di un Concilio Vaticano II, per potersi rendere conto che è il popolo il motore del cambiamento e non i mille o i diecimila militanti dei partiti politici; deve rendersi conto che è essenziale lavorare con la gente, per la gente, e partendo dalla gente. Bisogna aprire le porte, uscire dalla cripta dei partiti, e riflettere su nuove strutture. Se siamo disposti ad ascoltare, possiamo mettere in atto una linea di condotta collettiva. È essenziale far saltare i lucchetti installati in modo sistematico dal capitale, disfarsi della frammentazione della realtà e delle coscienze. Perchè l’umanesimo abbia una possibilità di vincere sopra la barbarie, bisogna lottare per costruire una nuova coscienza, diversa da quella coltivata dal capitalismo, e in questo la sinistra potrà apportare il proprio peso se cambia la sua concezione e azione politica, mettendo fine alla gerarchizzazione che la allontana dalla base e rimpiazzandola con il dialogo permanente, l’apprendimento collaborativo, l’orizzontalità delle decisioni, il controllo popolare.

Traduzione di Giuseppina Vecchia per Pressenza.

(L’intervista originale in spagnolo si trova sul sito di ArgenPress)