Ali, presentaci brevemente la tua storia.

Mi chiamo Ali Abu Awwad e provengo da una famiglia di rifugiati del ‘48. Si tratta di una famiglia molto impegnata politicamente, mia madre è stata in prigione per molti anni. Io ho seguito presto i suoi passi e mi sono messo nella resistenza contro l’occupazione israeliana. Sono stato arrestato nella prima Intifada e ho passato quattro anni in prigione. Nel 2000, un colono israeliano mi ferì gravemente. Mentre mi curavano in Arabia Saudita ho saputo della morte di mio fratello Yousef. Era stato fermato a un posto di blocco, e un soldato israeliano gli aveva sparato a bruciapelo.

La cosa peggiore nel mio paese è che il dolore inflitto non finisce con l’assassinio, ma continua in mille dettagli della vita giornaliera sotto l’occupazione israeliana. Molte volte il dolore e la disperazione ti lasciano senza alcuna scelta, ma alla fin fine posso dire che chi ha ammazzato mio fratello non ha potuto strappare la mia umanità, né impadronirsi del controllo della mia mente. Mia madre è stata la prima persona della famiglia a entrare a far parte del Circolo di Genitori, il secondo sono stato io. Il Circolo di Genitori è un’organizzazione che riunisce oltre seicento famiglie israeliane e palestinesi che trasformano il dolore per la perdita di una persona cara in azioni per la riconciliazione. Attualmente sono responsabile dei progetti dell’organizzazione. Dopo un percorso molto lungo e duro, ora credo che il dialogo sia la strada per arrivare alla verità e alla pace… ma non qualsiasi tipo di dialogo.

Cosa vuoi dire?

Da otto o nove anni vivo praticamente dentro la mia valigia. Sono stato in moltissimi posti del mondo. Ho sentito i politici parlare di pace e dialogo alle Nazioni Unite o alla Camera dei Lords. Hanno la parola facile. Per me, al contrario, il dialogo passa in primo luogo dal sedersi su una sedia molto scomoda dalla quale guardare il mondo. Si tratta di rimanere lì e provare quello che sta provando l’altro, non per sentire compassione per lui, ma semplicemente per capire quello di cui ha bisogno nella sua vita per vivere, per crescere, per pensare, per comportarsi come un essere umano.

E su che tipo di sedia bisogna sedersi per capire quello che succede in Palestina?

Bisogna chiedersi alcune cose: che cosa senti quando hai dieci anni e vai a trovare tua madre in galera, ma non puoi abbracciarla? Che cosa significa crescere da rifugiato? Che cosa senti quando prendi a sassate un nemico armato fino ai denti? Che cosa ho sentito quando, durante interrogatorii e torture, mi hanno detto che avevano tagliato a zero i capelli a mia madre, l’avevano rasata a zero, perché aveva una qualche malattia? Che cosa senti quando per tutta la vita ti viene chiesto di essere un eroe, quando ci si aspetta che tu sia un leader a 17 anni? Sono alcune domande prese della mia storia, ma la mia storia è perfettamente comune in Palestina. Quando ci sediamo in una di quelle sedie scomode, allora il dialogo può dar risultati perché diventa immediatamente un dialogo pratico.

Mi piacerebbe capire che esperienze e riflessioni ti hanno portato fino al Circolo dei Genitori e, in generale, alle tue posizioni attuali.

Quel processo ha molti momenti. Per esempio, il primo contatto con la resistenza nonviolenta fu quando stavo in prigione, dopo la prima Intifada. Io facevo parte della commissione che coordinava allora un gruppo di cinquemila prigionieri politici palestinesi. Decidemmo di fare un sciopero di fame. A base di solo acqua e sale, durò diciassette giorni. L’unica cosa che chiedevamo erano migliori condizioni, neanche la nostra libertà. E le abbiamo ottenute. Quella dimostrazione della forza della resistenza nonviolenta mi ha segnato profondamente.

Un altro episodio è avvenuto qualche tempo dopo. Dopo tre anni in prigione, lottando e protestando, sono riuscito a vedere mia madre che era in una prigione femminile. Mi hanno portato dalla mia prigione alla sua. Lei stava dall’altro lato del vetro ed abbiamo cominciato a parlare, senza lacrime. Non so, quando vivi questa vita in qualche modo incominci un poco a trasformarti in una macchina, suppongo. Ma chi non poteva smettere di piangere erano i due ufficiali della polizia israeliana che ci custodivano. Io conoscevo gli israeliani come forza occupante, militari, nemici, ma non ne avevao mai visto uno piangere. Cosicché attraverso quel gesto ho potuto assaporare il sapore della riconciliazione.

Molte volte abbiamo questi conflitti interni, quando non sappiamo molto bene quello che ci succede. Ma in politica bisogna sempre essere molto sicuri di quello che fai. Le cose devono essere chiare e benché non lo siano, bisogna dire che lo sono. Aggiungere umanità alla politica, quello sì che è un lavoro duro. Questa è la nostra posizione.

Come hai vissuto gli Accordi di Oslo?

La mia famiglia ed io ci aspettavamo qualcosa di importante da quel processo. Ci aspettavamo né più né meno di cambiare la nostra identità: trasformarci da rivoluzionari ad cittadini di un nostro Stato. Personalmente, aspiravo ad uscire di prigione, ritornare a casa mia in Cisgiordania e vivere in modo normale una vita con i valori della pace. Ma quando mi liberarono insieme ad altri quattromila detenuti politici palestinesi, mi obbligarono a vivere a Gerico per altri due anni, senza poter tornare a casa. L’Accordo di Pace cominciò a deludermi. Ed imparai qualcosa di importante che poi ha avuto molto a che fare con la mia decisione di entrare nel Circolo: una cosa è un accordo di pace ed un’altra molto diversa è la costruzione della pace. Quell’Accordo di Pace era soprattutto pace di fronte ai media, pace solo sulla carta, senza costruzione della pace.

Che cosa hai fatto tornando a casa?

Non riuscivo a collegarmi con la situazione reale. Mi domandavo di continuo: voglio continuare ad essere un rivoluzionario, un lottatore? Ma durante il periodo dell’Accordo ho potuto verificare il significato e il valore dell’assenza di violenza, avevo speranza che qualcosa potesse cambiare nella mia vita. Cosicché decisi di impegnarmi più direttamente nel processo di pace e diventai un ufficiale della sicurezza palestinese. Non fu per niente facile. L’Autorità palestinese non era un’autentica autorità, c’era sopra un’altra autorità: l’occupazione israeliana. In realtà non potevamo controllare praticamente niente. Il comando israeliano umiliava l’Autorità palestinese in continuazione. E quando c’era un attentato suicida ci facevamo molte domande: di chi è la responsabilità? Dell’Autorità palestinese? Del Parlamento o dell’esercito israeliano, di chi? Allora mi resi conto che se non c’è partecipazione, se non includi la riconciliazione, l’empatia, la conoscenza e la comprensione, se non aggiungi tutto questo alla soluzione politica dei problemi politici, il processo di pace è debole e le speranze svaniscono molto rapidamente.

Nel 2000 incominciò la seconda Intifada, con un’impronta chiaramente militante. Due mesi dopo fui ferito da un colono israeliano. E mentre ero in cura in Arabia Saudita mi hanno comunicato la morte di mio fratello ad un posto di blocco. Un soldato gli ha sparato una pallottola in testa a settanta centimetri di distanza. Yousef aveva 32 anni.

Come hai accolto la sua morte?

Malissimo. Yousef era per me un fratello, un amico, un padre, una madre. Si è sempre occupato di me, mi proteggeva. Io sapevo cosa significa perdere la fede, perdere la ragione. Sapevo cosa significa perdere il sonno, perdere la speranza. Ma non sapevo cosa significasse perdere qualcuno che fa parte della tua vita, della tua esistenza. Mio fratello è stato assassinato, non perché partecipasse a qualche attività politica, né perché fosse un delinquente, bensì semplicemente per essere un palestinese. Per quel motivo l’hanno ammazzato. Per caso essere palestinese è un delitto, una colpa?

Yousef era per me come tutto un pianeta, per questo nulla può sostituirlo. Se Yousef valeva tutto un pianeta, se valeva come tutti gli israeliani messi insieme, quanti ne dovevo ammazzare per sentirmi meglio? Quanto odio doveva avvelenare il mio corpo ed il corpo del nemico per potere alleviare il mio dolore? Mi rinchiusi in me stesso, non volevo parlare con nessuno, semplicemente non volevo vivere. Qualunque cosa facessi, niente me lo avrebbe restituito. Né la pace, né la violenza, né la nonviolenza, niente. Yousef, però, aveva lasciato anche un figlio, una figlia e una moglie. E ridare senso alla mia vita consisteva nell’aiutarli nella loro dopo la morte del padre. Ma in quel momento, pieno di ira come ero, non volevo vedere l’altro lato, né parlarci.

Cosa è successo poi?

É successo che il fondatore del Circolo, Yitzhak Frankenthal, ha voluto conoscere la mia famiglia. Lo chiese a mio fratello che lo disse a mia madre, e lei rispose: “Bene, gli diamo il benvenuto”. Rimasi sbalordito. Ho visto sempre molti israeliani in casa, conoscevo i loro comportamenti, i loro visi, gli aveva messo etichette, ma non aveva mai visto tanto da vicino il loro dolore, le loro lacrime. Allora mi resi conto che se quelle persone che avevano pagato un prezzo così alto al conflitto erano capaci di venire a casa mia, darmi appoggio ed empatia, e capire i miei diritti e le mie ragioni, allora chiunque in Israele poteva farlo. E allo stesso modo, come io mi sono unito al Circolo dei Genitori, chiunque in Palestina può farlo. Così è incominciata la mia strada nel Circolo dei Genitori, una fase della mia storia.

Che cosa significa per te la riconciliazione?

In primo luogo, credo che la riconciliazione sia una grande sfida personale. Perché lottare contro il nemico è una risposta facile, ma è molto più difficile lottare contro se stessi. Resistere al sentimento di vendetta, al desiderio di lanciare il veleno che ti hanno messo nel corpo contro un altro corpo, questo è molto duro. Riconciliarsi presuppone riconnettersi con la vita dopo il crimine. Essere capace di aprire di nuovo gli occhi e dire apertamente che ciò che è stato fatto contro di te non ti ha affondato.

Ma non è per niente facile smettere di sentirsi vittima, e questa è una delle ragioni per le quali continua il conflitto. Essere vittima significa che uno non agisce, ma reagisce. Uno perde la sua capacità di azione, perde la strategia, perde il controllo, perché l’unica cosa che lo controlla è il sentimento di essere vittima. In questo conflitto entrambi le parti si sentono vittime e questo spiega perché si perpetua il comportamento aggressivo. É una gara a chi è più vittima. E le vittime diventano spesso carnefici. Gli israeliani hanno la questione della storia, il riferimento all’Olocausto, per dimostrare che sono vittime. Ed i palestinesi possono brandire mille elementi della loro vita giornaliera: i posti di blocco, il muro, gli insediamenti, ecc.

Anche io mi sentivo una vittima ed aspettavo risposte esterne. Tutto dipendeva dagli altri: le soluzioni, i giudizi, le punizioni, ecc. Ma c’è stato un momento decisivo in cui ho cominciato a cercare risposte per me stesso ed in me stesso. Allora ho smesso di sentirmi una vittima. Quel processo è passato attraverso la conoscenza, quando dall’altro lato si è fatto un passo. Non so se ci sono chiavi per la riconciliazione. Neanche so molto bene che cosa mi è successo quando ho deciso di cambiare rotta verso la riconciliazione. Non so che cosa mi sia successo, ma so quello che voglio. La domanda chiave è: per quale motivo voglio riconciliarmi?

E qual è la tua risposta a questa domanda?

Per me, la riconciliazione è uno strumento per raggiungere la pace in una situazione di conflitto. Possiamo firmare un accordo di pace tra due stati o due nazioni. Ma la riconciliazione significa difendere con le unghie e coi denti quell’accordo, e normalizzare le relazioni con l’altro. Mediante la riconciliazione, l’esistenza dell’uno si trasforma nell’esistenza dell’altro, entrambe si collegano. Per questo credo nella riconciliazione durante il conflitto. E dopo avere raggiunto la pace, la riconciliazione dovrebbe trasformarsi in un obiettivo, non più in uno strumento. L’obiettivo di essere buoni vicini, in una situazione nella quale esistono relazioni normali tra vicini normali.

Se non ci riconciliamo, non è perché non vogliamo la pace, o perché vogliamo rimanere trincerati in un sentimento di vittimismo che non può mai essere gradevole. Non ci riconciliamo perché non sappiamo come farlo, non sappiamo come sotterrare il nostro dolore e la nostra rabbia, non sappiamo come riprendere a vivere quando il crimine contro di noi è continuo, come dare un viso umano al nemico che giorno per giorno ci disumanizza. Però, finché facciamo così, non c’è soluzione, restiamo paralizzati. Non stiamo parlando di amarci l’un l’altro né di cose spirituali del genere, ma di qualcosa di più pratico che possa servire anche a livello politico. Raggiungere la riconciliazione mentre il conflitto è tuttora in corso non è facile. Così come questo conflitto è complicato, anche la soluzione sarà complicata.

Il soldato che uccise mio fratello voleva che io pagassi con la mente, che perdessi la ragione. Questo è il vero problema. Perché se io non posso controllare i miei comportamenti, reagisco con violenza, e questo serve ai politici, ecco perché la riconciliazione è così preziosa.

Che relazione c’è tra riconciliazione e politica?

Per me, la riconciliazione non è solo un percorso personale tra due persone, ma anche tra due nazioni. Non si tratta di una soluzione personale grazie alla quale io mi sento meglio con me stesso. Non è un trattamento psicologico, ma la gestione politica di problemi che sono politici. Per esempio, l’assassinio di mio fratello è stato un fatto politico. Se io partecipo al Circolo dei Genitori, se mi siedo con gli studenti israeliani per esporre la mia esperienza, è perché sono convinto che tutto questo può contribuire a una maggior libertà per i palestinesi. Ecco perché, nella mia idea della riconciliazione, la visione politica è un elemento molto importante.

Qual è allora questa visione politica?

La mia idea come palestinese è di avere uno Stato palestinese.

Questa è la mia visione, la mia idea. Il mio obiettivo è che si ponga fine all’occupazione israeliana, cosa che porterà automaticamnete sicurezza per Israele. Il mio obiettivo è ottenere uno Stato Palestinese, il che porterà automaticamente il riconoscimento dello Stato di Israele.

La riconciliazione durante il conflitto non funzionerà senza una visione politica. Perché se esiste questa visione, se ce l’ho ben chiara in mente, posso perorare pubblicamente il mio comportamento e le mie dichiarazioni di riconciliazione. La riconciliazione necessita di una visione politica ma anche di una strategia, come dire, una struttura di base che la sostenga. Perché quando i tuoi comportamenti fanno parte di una struttura e di una strategia, allora gli altri, le vittime, possono far parte del processo. Se non altro ciò che è personale diventa un comportamento pubblico, collettivo.

Questa impostazione politica appartiene ai politici?

No, al contrario. Uno dei nostri maggiori problemi è che i politici non hanno alcuna strategia per la pace in Oriente. Ecco perché da loro viene solo conflitto, e la costruzione della pace arriva da altrove. Non sono affatto sicuro che i politici si avvicinino ai tavoli dei negoziati con mente limpida e buone idee su come risolvere i problemi. Da questo derivano le rivalità politiche su chi avrà i maggiori vantaggi. Ma nella trattativa per la pace non c’è un vincitore. Entrambe le parti devono guadagnarci. Neanche la comunità internazionale possiede una strategia per la pace in Medio Oriente. Di fatto, in alcune azioni il nostro sangue viene strumentalizzato come fosse merce. Ma il sangue dei bambini israeliani e palestinesi è ben più sacro delle esigenze politiche di chiunque. Il nostro sangue non è in vendita.

Si dice che il grande problema della riconciliazione è che non si sa come gestire il dolore e la rabbia, cosa fare con l’energia dell’odio. Cosa ne pensi?

Ciò che porta le persone verso la violenza non è l’odio. Questo l’ho sperimentato in prima persona. Il nostro stato normale non è l’odio. Ma quando si vive nel dolore, si è spinti alla rabbia. La rabbia è il linguaggio della sofferenza, non dell’odio. É importante rendersene conto. Si può creare l’occasione per fare un uso diverso della rabbia. Questa è una delle chiavi della mia scommessa sulla resistenza nonviolenta. La resistenza nonviolenta è il mezzo con il quale canalizzare efficamente la rabbia, e la rabbia ben canalizzata ci porta al successo. Vogliamo aver ragione, o vogliamo ottenere risultati, essere efficaci? Questa è la domanda chiave. Vuoi che la tua rabbia ti porti da qualche parte, o vuoi solo sentirti bene per aver reagito, resistito, per esserti vendicato?

La resistenza nonviolenta è più di una filosofia, è una struttura, uno stile di vita, una identità politica. Quando si parla dell’India, viene subito alla mente Ghandi, o la Marcia del Sale. Invece, qual’è la prima cosa che viene in mente se si parla di Gaza? Hamas, la resistenza di Hamas. Un comportamento diventa identità politica. Che però possiamo cambiare: il movimento di nonviolenza che stiamo creando potrebbe diventare il nuovo volto della nazione.

Cosa andrebbe fatto per ottenere questo cambiamento?

Poco tempo fa mi sono incontrato con gente che vive nella zona di Jenin, nella striscia di Gaza. Mi sono seduto con sessanta guerriglieri che erano lì con le loro armi. Abbiamo parlato del processo di costruzione della pace. Sono più di sessanta anni che lottiamo, e qual è il risultato di tanta lotta? Più muri, più insediamenti, più posti di controllo. Ho spiegato perché la resistenza nonviolenta potrebbe essere un cammino più efficace verso la pace. Dopo quattro ore di conversazione, i guerriglieri mi dissero molto chiaramente che anni fa avevano firmato un accordo per deporre le armi, ma la cosa non funzionò in quanto non ci fu alcun tipo di cambiamento nella loro vita quotidiana. Il problema principale per Israele è la sicurezza: se non subiscono attacchi, gli israeliani vivono in pace. Lo stesso non accade ai palestinesi: un cessate il fuoco da parte di Israele non è una soluzione per la Palestina. Perché l’occupazione continua il suo corso, con i muri, i posti di blocco, gli insediamenti. Negli ultimi anni si sono raggiunti vari accordi nella fascia di Gaza, ma con quali risultati? Che non ci sono cambiamenti a livello pratico. Così, quando il sentimento di disperazione affiorerà di nuovo, il cessate il fuoco verrà violato. Per convincere chi vive sotto l’occupazione a non rispondere a qualsiasi attacco con la violenza, bisogna mostrare un percorso attivo, pratico ed efficace.

Qual è la forza della nonviolenza?

La resistenza nonviolenta non attacca fisicamente, però si confronta con aspetti militari: armi, eserciti, carri armati. Tuttavia, la sua arma non è né fisica né materiale, bensì morale. É la propria umanità. É il diritto che si esercita e si mette in pratica. Se cerco di conquistare il diritto all’indipendenza della Palestina per via militare sarò sconfitto. Perché perderemo qualunque battaglia con Israele, che la cosa ci piaccia o no. E inoltre nessun tipo di rivoluzione conquista la libertà. In un conflitto armato noi palestinesi siamo perdenti su tutti i piani. Per contro, la resistenza nonviolenta è a sua volta una strategia di lotta. E parlo di lotta perché questa è una battaglia. Per esempio, ti metti davanti a un rullo compressore venuto a danneggiare e distruggere la tua casa. Uno sta così, disarmato, solo con il suo corpo. Ma non è disarmato di fede e di morale. Bisogna avere un livello molto alto di fede per sviluppare questo tipo di comportamento. Israele ha un grande problema con la resistenza palestinese nonviolenta. I soldati israeliani diventano sempre più violenti con i nostri attivisti. Vogliono che noi rispondiamo con violenza. Ma io so che se non lo faccio li smantello. Con la resistenza nonviolenta facciamo in modo che il sistema che abbiamo di fronte non funzioni. Per spiegare come funziona la nonviolenza, racconto spesso questa storia.
Sentiamo.

Un giorno, io e un mio amico passavamo da un posto di blocco. Un soldato israeliano dall’aspetto molto deciso si avvicinò sorridendo. Io gli domandai: “Com’è la vita in questo posto di blocco?” Quel giorno pioveva e faceva molto freddo. “Mi sembra che debba essere terribile stare in questo posto di blocco”, continuai. Sorrise un po’ di più e disse: Perché dovrebbe? Qua comando io”. Io gli risposi: “Perché sta soffrendo, lo so”. Si arrabbiò moltissimo: “No, ti sbagli, sei tu che soffri”: E io replicai tranquillo: “No, io sto in macchina, al caldo, con un amico. Lei sta sotto la pioggia, viene verso di me con la sua arma ed è fiero di provocarmi dolore. Ma qui il debole è lei. Io lascerò questo posto di blocco mentre lei rimarrà qui tutto il giorno”. Quel soldato si sentì molto a disagio quando gli dimostrai che non poteva trasformarmi in vittima, quando gli mostrai la debolezza del potere che gli veniva solo dal tenere un’arma. Allora cominciò a parlarmi con un altro tono. Mi raccontò che era nato in uno degli insediamenti, che la sua famiglia apparteneva all’estrema destra religiosa e che non aveva mai parlato con un palestinese da pari a pari.

Chi controllava la situazione, allora, chi aveva la vera autorità? Non era lo stesso, dopo. É solo un esempio, una storia. Però mostra bene come un comportamento nonviolento richiede moltissima forza, prima di tutto la forza di controllare l’ira. Se io sono quello che subisce una occupazione militare, chi è in una posizione ingiusta ed equivoca è l’altro, non io. É allora che dobbiamo chiederci se vogliamo solo aver ragione o anche essere efficaci. Perché attraverso queste azioni umane, lasciamo l’altra parte senza scelta. La parte opposta pensa: “Prendi un’arma e saprò come trattarti”. Ma finché non prendo un’arma, non sanno come agire. Nella guerra fisica, puoi combattere, mentre quando poni la tua umanità come arma di fronte al nemico risvegli l’essere umano che c’è in lui, perché tutto ciò che ha di fronte è un altro essere umano. Alla fine, io non avevo davanti a me l’immagine di un nemico armato e aggressivo, ma invece quella di un essere umano con la sua storia. Se questo diventa un atteggiamento generalizzato, e questa resistenza nonviolenta si va sviluppando già da ora nella striscia di Gaza come un atteggiamento pubblico e nazionale, allora certamente la soluzione arriverà prestissimo.

Per quali motivi sei convinto che la resistenza nonviolenta possa essere così efficace?

Perché toglie agli israeliani il pretesto della sicurezza. La sicurezza israeliana è diventato il maggior nemico dei palestinesi. Perché? Perché è basata sull’occupazione: non è la difesa legittima di una nazione, ma invece un sistema nel quale i bambini palestinesi impiegano quattro ore per arrivare a scuola la mattina, una situazione nella quale le donne incinte muoiono ai posti di blocco. Questa non è sicurezza, il muro non è un meccanismo per la sicurezza.

Prima di tutto, è la rappresentazione psicologica della paura di Israele, una paura molto legata al suo passato storico. Questa è la verità. Se i sistemi militari dell’occupazione israeliana non funzionano allora possiamo trovare altre soluzioni. Ma finché esiste un solo suicida, questo sistema continuerà ad essere potente, perché così ha un pretesto per continuare ad armarsi. Per questo io mi sento disperato quando avvengono azioni di violenza armata. La lotta contro “l’islamismo radicale” è il miglior pretesto di fronte alla comunità internazionale. E così nessuno presta attenzione al diritto legittimo alla resistenza da parte di una nazione occupata che vive una situazione di ingiustizia. La resistenza nonviolenta strappa loro questo pretesto. Quello di cui abbiamo bisogno è un tipo di organizzazione, di struttura, che serva allo stesso tempo sia alla libertà che alla sicurezza. Hamas ha una sua struttura, così come l’occupazione ha la propria, e anche Avigdor Lieberman.

Però l’occupazione non è utile alla sicurezza, e la violenza non è utile alla libertà. Per questo il 95% dei palestinesi non prende parte alla resistenza violenta, nonostante viva sotto occupazione (eppure, si continua a considerarci terroristi!) Abbiamo bisogno di una struttura per la pace, una struttura per l’umanità della resistenza nonviolenta. Resistenza nonviolenta non significa abbandonare il diritto a resistere all’occupazione, ma il rifiuto di uccidere per questo diritto. L’uccisione di un altro essere umano dovrebbe essere considerato un crimine, un delitto. Se due nazioni possono arrivare a queste conclusioni senza dare tanti pretesti ai massacri, potremmo riconciliarci e, chissà, anche perdonarci.

Quali sono secondo te i risultati e i contributi più importanti del Circolo dei Genitori?

Il miglior regalo che può fare il Circolo è mostrare che quelli che hanno pagato il prezzo più alto al conflitto possono sedersi e parlare. Se loro possono farlo, allora può farlo chiunque.

Questo è il maggior risultato, secondo me, perché sconfigge l’auto-rigenerazione del conflitto. Raggiungere una soluzione politica del conflitto attraverso il Circolo non è compito nostro. Nostro compito è piuttosto suscitare una migliore comprensione tra i popoli, cosa che in più può contribuire al processo di negoziazione e alla ricerca di una soluzione politica. É difficile essere umani quando si vive in una giungla. Per me, essere umano non significa sentire compassione o essere amabile verso gli altri. Essere umano vuol dire essere capaci di capire quali sono i bisogni degli altri per poter vivere come essere umani, sostenerli, e così essere parte della loro esistenza come essere umano. Quando ci consciamo reciprocamente, quando ognuno conosce le necessità vitali degli altri e si sente coinvolto, allora diventiamo parte della soluzione dei problemi. Nel Circolo abbiamo creato una tale fiducia che lascerei tranquillamente che Aaron (Barnea), israeliano, mi rappresentasse. In altre parole, porrei nelle sue mani il sangue di mio fratello, la storia della mia famiglia e la mia identità politica senza esitare. Questa fiducia è un altro risultato importante del Circolo.

Mi piacerebbe inoltre segnalare i risultati internazionali del circolo, basati sul mandare in tutto il mondo questo messaggio: Che si smetta di usarci, che si abbandoni l’essere pro-questo e pro-quello e si sia pro-soluzione. Se si vuole sostenere Israele, si faccia in modo che abbandoni il prima possibile i territori occupati. Se si vuole appoggiare la Palestina, si sostenga la resistenza nonviolenta e la trasformazione delle condizioni di vita quotidiana dei palestinesi. Qua niente sta per sparire, l’unica soluzione è imparare tutti a convivere sulla stessa terra. Per questo chiedo che ci siano due stati e che la mia vita non sia gestita da un gruppo di matti. Voglio che Israele abbia frontiere politiche per riconoscerle. Voglio una situazione nella quale il mondo si renda conto che le armi non sono la risposta.

Non so perché non possiamo condividere la vita in questa terra, e ci ostiniamo a condividere la morte dopo aver seppellito i nostri morti. L’unica cosa di cui ho bisogno è la mia libertà, non voglio buttare gente a mare o cose del genere.

Per questo il nostro messaggio, le nostre voci unite si alzano, come voce di gente considerata in genere come vittime, per dire che non siamo merce al servizio dell’azione politica di nessuno, che scegliamo di vivere, scegliamo la pace, e scegliamo di arrivare a una soluzione. E se alla fine la soluzione sarà la separazione, ne farò parte. Se il muro ha l’approvazione di entrambe le parti, appoggerò il muro Se la gente vuole il divorzio, bene, divorzieremo. Perché così potremo forse un giorno risposarci, ma non certo in questo tipo di matrimonio. Non in quello che abbiamo ora.

Ti senti comunque in grado di immaginare un futuro di pace?

Mai avrei immaginato che Arafat e Rabin si sarebbero stretti la mano, eppure è successo. Mai avremmo immaginato che 140 famiglie palestinesi ed israeliane sarebbero andate insieme al Museo dell’Olocausto, e il giorno dopo a visitare un villaggio in Palestina, eppure è quello che il Circolo dei Genitori è riuscito a fare. Non mi sarei mai immaginato di parlare con Aaron di un futuro di pace, nè di pronunciare la parola “occupazione” in una scuola israeliana. Mai avrei pensato che Hamas si dicesse pronto a riconoscere le iniziative dei paesi arabi e chiedere loro di ottenere un cessate il fuoco. Le cose si stanno muovendo. Questo è un processo allo stesso tempo emotivo e politico, personale e politico. Non possiamo risolvere tutto. I problemi non spariranno, neanche dopo la riconciliazione. Ci saranno sempre conflitti, identità e ideologie distinte, ma: si tratterà di conflitti dove la gente muore, o dove semplicemente le persone discutono e non si piacciono molto? Non c’è bisogno di adorarsi, basta che non ci ammazziamo. Questa è la situazione che vorrei vedere tra palestinesi e israeliani: che anche nelle dispute e nei conflitti siamo inclusi valori nonviolenti.

Questa intervista è apparsa nel numero 35 della rivista Hermes (novembre 2010).

La pagina web del Circolo dei Genitori:
[http://www.theparentscircle.com/](www.theparentscircle.com)

Traduzione dallo spagnolo di Olivier Turquet e Giuseppina Vecchia per Pressenza.